Corte Appello Roma 27.5.2021
2/2021 MAGGIO-AGOSTO
Corte Appello Roma 27.5.2021, Pres. Di Sario, Rel. Selmi, Del Soldato (Avv. Pazzaglia) c. Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense (Avv. Bella).
Avvocato – Previdenza – Contributi – Contributo integrativo – Natura giuridica – Tassa – Esclusione.
Avvocato – Previdenza – Indennità di maternità – Regolamentazione – Diversità di trattamento del padre e della madre libera professionista – Natura discriminatoria – Esclusione.
Avvocato – Previdenza Forense – Contributi – Contributo minimo – Legittimità. Avvocato – Previdenza – Contributi – Potestà regolamentare della Cassa Forense – Sussistenza.
Avvocato – Cassa Forense – Comitato dei delegati – Elettorato passivo – Anzianità assicurativa minima – Legittimità.
Il contributo integrativo dovuto alla cassa Forense non ha natura di tassa, trattandosi di prestazione legittimamente imposta, nell’ambito della complessiva disciplina previdenziale, per fini solidaristici ai fini di sopperire alle esigenze della Cassa, senza che possa ritenersi decisivo in senso contrario il fatto che l’onere economico gravi sul cliente dell’avvocato o la sua assoggettabilità ad Iva, circostanza quest’ultima che, in ogni caso, non può ritenersi di per sé sufficiente all’attribuzione del prelievo in questione natura tributaria.
La regolamentazione dell’indennità di maternità non può reputarsi di per sé discriminatoria essendo la diversità di trattamento comunque giustificata dalla diversità della posizione del padre biologico libero professionista con quella della madre libero professionista.
L’imposizione di un contributo minimo, a prescindere dal reddito percepito e svincolato da un rapporto di corrispettività diretta con le prestazioni, risulta essere legittima attuazione dell’autonomia gestionale dell’ente senza che la previsione di tale obbligo, nonostante la previsione di sanzioni nel caso di mancato versamento, possa reputarsi in qualche modo equiparabile alle costrizioni vietate dalla normativa internazionale in materia di lavoro obbligatorio.
La possibilità per la Cassa Forense di determinare gli importi dei contributi, è stata attribuita alla potestà regolamentare dell’ente direttamente da una norma di legge ordinaria (art. 21, comma 9, l.n. 247/2012), e tale regolamento è soggetti a controllo ed approvazione ministeriale. La previsione di un contributo mediante l’atto di natura regolamentare da parte della Cassa non integra un abuso della potestà normativa attribuitale per legge, e non si pone in contrasto con le norme dell’ordinamento interno e comunitario.
Non è né irragionevole né discriminatorio la limitazione dell’elettorato passivo per il Comitato dei delegati ad una anzianità minima di iscrizione alla cassa.
Ragioni della decisione
Con la gravata sentenza il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, rigettava l’opposizione presentata dall’avvocato Del Soldato Flavio avverso la cartella di pagamento 09720160218849580 notificatagli in data 18/1/2017 per il complessivo importo di € 883,88 a titolo di contributo soggettivo minimo e contributo di maternità per gli anni 2014 e 2015, avanzando altresì domanda di restituzione del contributo integrativo integrativo ex art. 11 l. n. 576/1980 per l’importo di € 1.836,63 e di cancellazione, o in subordine di sospensione, della sua iscrizione alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense con diritto a destinare il suo reddito alla compagnia di fiducia Generali Italia s.p.a. Avverso tale sentenza Del Soldato Flavio proponeva appello fondato su più motivi.
La Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense (CNPAF) si costituiva in giudizio resistendo all’accoglimento del gravame.
Nel corso del presente giudizio è scoppiata l’emergenza epidemiologica da COVID-19 con l’emanazione dei noti dd.ll. nn. 34/2020 conv. nella legge n. 77/2020 e, da ultimo, del d.l. n. 137/2020.
È stata quindi disposta la trattazione cartolare, ferma l’udienza già fissata del 27/5/2021, sostituita dal lo scambio di note scritte secondo quanto previsto dall’art. 83 cit. comma 7 lett. h) d.l. n. 18/2020.
All’esito della trattazione scritta la causa è stata decisa come da dispositivo. L’odierno appellante aveva adito il Tribunale di Roma impugnando la cartella di pagamento 09720160218849580 notificatagli in data 18/1/2017 per il complessivo importo di € 883,88 a titolo di contributo soggettivo minimo e contributo di maternità per l’anno 2014 nell’interesse della CNPAF avanzando altresì domanda di restituzione del contributo integrativo ex art. 11 l. n. 576/1980 versato per l’importo di € 1.836,63 e di cancellazione, o in subordine di sospensione, della sua iscrizione dalla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense con diritto a destinare il suo reddito alla compagnia di fiducia Generali Italia s.p.a.
Premesso di essere iscritto all’Albo degli Avvocati di Roma dal 14/12/2006 e di avere sottoscritto con le Assicurazioni Generali s.p.a. (oggi Generali Italia s.p.a.) un piano individuale pensionistico di tipo assicurativo, contestava l’illegittimità della iscrizione obbligatoria effettuata dalla Cassa con nota in data 10/12/2014 e la fondatezza della pretesa creditoria oggetto della cartella impugnata.
Contestava, sotto molteplici profili, anche la legittimità del contributo integrativo previsto dall’art. 11 L. 576/1980, evidenziandone la natura di vera e propria tassa a carico del cliente dell’avvocato e la sua contrarietà ai principi costituzionali e alle direttive comunitarie rivendicando il proprio diritto alla cancellazione e al rimborso della contribuzione integrativa corrisposta per il periodo 2006-2011 per complessivi € 1.836,33 e il proprio diritto di assicurarsi con una compagnia di diritto privato scelta sul libero mercato.
Il Tribunale respingeva il ricorso, evidenziando quanto affermato dalla C. Cost. con la sentenza n. 67/2018 ove aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione degli artt. 10 e 22, comma 2, della l. 576/1980 evidenziando in particolare quanto affermato in tale sentenza in ordine al rientrare nell’autonomia regolamentare della Cassa il dimensionamento della contribuzione agli assicurati nel modo più adeguato per raggiungere la finalità di solidarietà mutualistica che la legge gli assegna assicurando comunque l’equilibrio di bilancio, connotazione solidaristica che giustifica l’obbligatorietà dell’iscrizione alla Cassa.
Escludeva la ravvisabilità della violazione delle disposizioni costituzionali e comunitarie richiamate dall’odierno appellante rilevando in particolare come l’obbligazione contributiva non fosse assoggettata al principio di progressività ex art. 53 Cost., come l’adempimento dell’obbligazione previdenziale non condizionasse a monte l’esercizio dell’ attività professionale, come la previsione di un contributo minimo a carico di tutti gli esercenti la professione forense rispondesse alle esigenze solidaristiche della categoria essendo volta ad assicurare un trattamento previdenziale minimo anche nel caso di redditi percepiti in misura modesta, come l’iscrizione alla Cassa non fosse di ostacolo alla concorrenza nè creasse discriminazione una volta accertata l’obbligatorietà di tale iscrizione per tutti e come il Regolamento di attuazione prevedesse una disciplina più leggera per coloro che si trovassero in condizioni economiche meno favorevoli.
Escludeva altresì la lamentata violazione dell’art. 23 Cost. rilevando come l’attività di imposizione contributiva non fosse rimessa all’arbitro di CPNAF essendo il relativo Regolamento soggetto a controllo ed approvazione ministeriale.
Escludeva infine la fondatezza delle doglianze del ricorrente anche in ordine alla sussistenza di una discriminazione fondata sull’età e relativa alla impossibilità di essere eletto al Comitato dei delegati.
Con un primo motivo l’appellante contesta la gravata sentenza nella parte in cui non aveva accolto la richiesta di restituzione del contributo integrativo.
Lamenta in particolare l’omessa motivazione e pronuncia in ordine alle eccezioni sollevate relativamente alla natura di tassa del contributo integrativo di cui all’art. 11 l. 576/1980, natura quest’ultima che l’appellante ribadiva (evidenziando in particolare come la stessa a seguito della tacita abrogazione dell’art. 11, ultimo comma, l. 576/1980 ad opera dell’art. 16 d.l. 41/1995, fosse assoggettata ad Iva e il cui importo, consistendo in una maggiorazione su tutti i corrispettivi rientranti nel volume d’affari ai fini dell’Iva, gravava sul cliente privo di un rapporto previdenziale con la Cassa) ri vendicando conseguentemente l’illegittimità del tribu- 171 to stante il divieto di cui all’art. 1 d.lgs. 509/1994 di percepire finanziamenti pubblici e la stessa illegittimità della trasformazione di CPNAF in fondazione di diritto privato in violazione dei principi e criteri direttivi della legge delega di cui all’art. 1, comma 33, lett. a, punto 4, l 537/1993.
Lamenta a tale proposito la violazione degli artt. 112 e 132, comma 1, n. 4 c.p.c., della VI Direttiva IVA, dell’art. 77, comma 1, Cost., dell’art. 1, comma 32, l. n. 537/1993, dell’art. 1 d.lgs.509/1994 e del divieto di finanziamento pubblico.
Il motivo non può trovare accoglimento in ragione della infondatezza dell’eccezione.
Com’è noto l’art. 11 della l. 576/80 prevede che tutti gli iscritti agli albi degli avvocati devono applicare una maggiorazione percentuale (attualmente pari al 4%) su tutti i corrispettivi rientranti nel volume d’affari annuale ai fini dell’IVA e che detto importo sia ripetibile nei confronti del cliente.
L’art. 11 l. n. 576/1980 prevede in particolare che “A partire dal primo gennaio del secondo anno successivo all’entrata in vigore della presente legge, tutti gli iscritti agli albi di avvocato e di procuratore nonché i praticanti procuratori iscritti alla cassa devono applicare una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d’affari ai fini dell’iva e versarne alla cassa l’ammontare indipendentemente dall’effettivo pagamento che ne abbia eseguito il debitore. la maggiorazione è ripetibile nei confronti di quest’ultimo (comma 1)…
Gli iscritti alla cassa sono annualmente tenuti a versare, per il titolo di cui al primo comma, un importo minimo risultante dalla applicazione della percentuale ad un volume d’affari pari a quindici volte il contributo minimo di cui all’ articolo 10 , secondo comma, dovuto per l’anno stesso (comma 2)…”.
Il suddetto contributo si aggiunge a quello soggettivo previsto dall’art. 10 della stessa legge, contributo il cui versamento è obbligatorio per ogni iscritto alla cassa in misura pari ad una determinata percentuale del reddito professionale prodotto nell’anno con la previsione, in ogni caso, di un importo minimo obbligatorio a prescindere dal reddito percepito.
Così come rilevato dall’appellante, quanto disposto dall’ultimo comma dell’art. 11 l. n. 576/1980 alla cui stregua il contributo integrativo non è assoggettato né ad Irpef né ad Iva è stato parzialmente abrogato, in modo implicito, dall’art. 16 dl n. 41/1995 conv. in l 88/1995, il quale ha espressamente previsto (in ottemperanza all’art. 11, parte A, par. 2, lett. a) della VI direttiva 77/388/CEE) che il contributo oggetto di controversia rientri nella base imponibile Iva.
Il versamento del contributo integrativo non rileva pacificamente in relazione all’importo delle pensioni erogate dalla Cassa (vecchiaia, anzianità, inabilità, invalidità e vecchiaia contributiva) calcolate, queste ultime, esclusivamente sui contributi soggettivi versati (previsti dall’art. 10 l. n. 576/1980) e non anche sui contributi integrativi essendo questi ultimi diretti esclusivamente al finanziamento della previdenza di categoria ed espressione di un dovere di solidarietà nell’ambito della categoria professionale (nel senso della natura solidaristica di tale contributo cfr. Cass. n. 30571 del 22/11/2019 e Cass. n. 10458 del 21/10/1998 le quali, sulla base di tale natura solidaristica, avevano escluso che la cancellazione del professionista dalla Cassa per incompatibilità con l’esercizio di altre attività determinasse l’obbligo della restituzione di tale tipologia di contributi).
L’art. 21, comma 8, l. n. 247/2012 (nell’ambito di una più generale disciplina della professione forense) aveva disposto che “l’iscrizione agli albi comporta la contestuale iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense” prevedendo altresì al comma successivo che “la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, con proprio regolamento, determina, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, i minimi contributivi dovuti nel caso di soggetti iscritti senza il raggiungimento di parametri reddituali, eventuali condizioni temporanee di esenzione o di diminuzione dei contributi per soggetti in particolari condizioni e l’eventuale applicazione del regime contributivo” prevedendo altresì al comma 10 che “non è ammessa l’iscrizione ad alcuna altra forma di previdenza se non su base volontaria e non alternativa alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense”.
Lo stesso art. 21, ai primi due commi, dispone che “La permanenza dell’iscrizione all’albo è subordinata all’esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente, salve le eccezioni previste anche in riferimento ai primi anni di esercizio professionale.
Le modalità di accertamento dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione, le eccezioni consentite e le modalità per la reiscrizione sono disciplinate con regolamento adottato ai sensi dell’articolo 1 e con le modalità nello stesso stabilite, con esclusione di ogni riferimento al reddito professionale.
2. Il consiglio dell’ordine, con regolarità ogni tre anni, compie le verifiche necessarie anche mediante richiesta di informazione all’ente previdenziale. …”.
La normativa teste menzionata è quindi chiara nel prevedere che, ogniqualvolta l’avvocato svolga in via effettiva, abituale, continuativa e prevalente l’attività forense, con conseguente iscrizione all’albo professionale, sia tenuto ad iscriversi anche alla Cassa previdenziale prevedendo altresì la facoltà per quest’ultima di prevedere tramite regolamento, l’obbligo di pagamento di minimi contributivi a prescindere dal raggiungimento di qualsivoglia soglia reddituale.
In attuazione di tale disposizione di legge l’art. 7 del Regolamento contributi dell’ente prevede per il 2014, al comma 1, un importo minimo annuo tanto per il contributo soggettivo (pari ad € 2.780) che per quello integrativo (pari ad € 700) che per il contributo di maternità ex d. lgs. n. 151/2001 (€ 151).
Ciò premesso deve escludersi la possibilità di attribuire al contributo integrativo natura di tassa, trattandosi di prestazione legittimamente imposta, nell’ambito della complessiva disciplina previdenziale, per fini solidaristici ai fini di sopperire alle esigenze della Cassa, senza che possa ritenersi decisivo in senso contrario il fatto che l’onere economico gravi sul cliente dell’avvocato o la sua assoggettabilità ad Iva, circostanza quest’ultima che, in ogni caso, non può ritenersi di per sé sola sufficiente all’attribuzione del prelievo in questione natura tributaria.
Con un secondo motivo l’appellante lamenta l’omessa pronuncia sulla contestazione effettuata in ordine alla debenza del contributo di maternità, previsto dall’art. 7 del Regolamento dei contributi e richiesto per l’importo di € 151, contributo di cui affermava la natura discriminatoria, sotto il profilo sessuale, evidenziando come l’appellante non avesse diritto, nonostante la sua condizione di genitore biologico e a differenza delle iscritte di sesso femminile, ad alcuna prestazione.
Lamenta a tale proposito la violazione degli artt. 112 e 132, comma 1, n. 4 c.p.c., degli artt. 3, 23, 53, 117, comma 1, Cost., l'omessa previsione per genitore di sesso maschile, la discriminazione sessuale, la violazione dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali Ue, della Direttiva 2006/54/CE del Parlamento e del Consiglio del 5/7/2006, dell’art. 14 CEDU con riferimento all’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU, dell’art. 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, degli artt. 2 e 9 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, dell’art. 1, comma 1, della l. 247/2012 , del principio “ad impossibilia nemo tenetur” e dell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali Ue.
Anche tale doglianza non può trovare accoglimento. Il contributo in contestazione è previsto, nella misura di € 151, dall’art. 7 del Regolamento contributi il quale dispone che “Per la copertura finanziaria degli oneri di maternità ogni avvocato o praticante avvocato iscritto alla Cassa è obbligato a versare un contributo annuo determinato dal Consiglio di Amministrazione ai sensi dell’art. 83 del D.Lgs. 151/2001”.
La predetta disposizione regolamentare costituisce attuazione di quanto previsto dal comma 1 di cui all’art. 83 d.lgs. 151/2001 alla cui stregua “Alla copertura degli oneri derivanti dall’applicazione del Capo XII, si provvede con un contributo annuo a carico di ogni iscritto a casse di previdenza e assistenza per i liberi professionisti. Il contributo e’ annualmente rivalutato con lo stesso indice di aumento dei contributi dovuti in misura fissa di cui all’articolo 22 della legge 3 giugno 1975, n. 160, e successive modificazioni”.
Trattasi pertanto di contributo imposto dalla legge al fine di finanziare prestazioni direttamente regolate dalla normativa vigente in particolare l’indennità di maternità per le libere professioniste (artt. 70-73 Regolamento) e quella per l’interruzione della gravidanza (art. 74 Regolamento) e al quale ben possono estendersi (anche con riferimento alle doglianze dell’appellante in ordine all’assenza di un rapporto di proporzionalità con il reddito percepito) le considerazioni precedentemente effettuate in ordine alla natura solidaristica di tale tipologia di prestazioni e al suo essere dovute anche in assenza di un diretto rapporto di corrispettività con le 173 prestazioni che è destinato a finanziare.
Non può pertanto ritenersi fondato quanto sostenuto dall’odierno appellante in ordine alla illegittimità di tale contributo in ragione della sua natura discriminatoria per non avere l’odierno appellante, nonostante la sua condizione di genitore biologico, diritto alla indennità di maternità dal d.lgs. 151/2001, censura quest’ultima che deve ritenersi riferibile in realtà alla regolamentazione dell’indennità di maternità così come effettuata dal legislatore, in particolare, per quanto riguarda i soggetti beneficiari, dall’art. 70 d.lgs. 151 (ove attribuisce il diritto di tale indennità in via principale alle professioniste di sesso femminile e solo in via residuale, nei casi previsti dal comma 3 ter, al genitore di sesso maschile).
Trattasi di regolamentazione che non può reputarsi di per sé discriminatoria essendo la diversità di trattamento comunque giustificata dalla diversità della posizione del padre biologico libero professionista con quella della madre libero professionista. Deve ribadirsi a tale proposito quanto affermato dalla C. Cost. con la sentenza n. 285/2010 ove ha affermato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 70 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, sollevata in relazione agli artt. 3, 29, secondo comma, 30, primo comma, e 31, Cost., nella parte in cui esso, nel fare esclusivo riferimento alle “libere professioniste”, non prevede il diritto del padre libero professionista di percepire, in alternativa alla madre biologica l’indennità di maternità.
Infatti, le norme poste direttamente a protezione della filiazione biologica, oltre ad essere finalizzate alla protezione del nascituro, hanno come scopo la tutela della salute della madre nel periodo anteriore e successivo al parto, risultando, quindi, di tutta evidenza che, in tali casi, la posizione di quest’ultima non è assimilabile a quella del padre.
Con un ulteriore terzo motivo l’appellante contesta la gravata sentenza nella parte in cui ha omesso di pronunciare e motivare sul profilo di illegittimità dell’iscrizione obbligatoria alla Cassa per avere violato, nella parte in cui imponeva all’odierno appellante, a pena di radiazione dall’albo professionale, il versamento di un contributo di importo minimo a prescindere dal reddito realizzato (che quantificava, se rapportato a quanto dovuto a tale titolo per l’intero periodo dell’attività professionale svolta dal 2014 sino al compimento del 70º anno di età, in complessivi € 105.299) la normativa internazionale e comunitaria sul lavoro forzato ed obbligatorio (artt. 1, comma 1, e 2, comma 1, della Convenzione OIL sul lavoro forzato ed obbligatorio – Raccomandazione OIL n. 35 sulla costrizione indiretta al lavoro - Violazione degli artt. 5 (lavoro forzato e obbligatorio) e 15 (libertà professionale) della Carta dei diritti fondamentali Ue - Violazione dell’art. 8 (vita privata) CEDU).
Anche tale motivo non può trovare accoglimento in ragione della infondatezza dell’eccezione.
L’imposizione di un contributo minimo, a prescindere dal reddito percepito e svincolato da un rapporto di corrispettività diretta con le prestazioni, risulta essere legittima attuazione dell’autonomia gestionale dell’ente (alla stregua di quanto espressamente previsto, in particolare, dall’art. 21, comma 9, l. 247/2012) senza che la previsione di tale obbligo, nonostante la previsione di sanzioni nel caso di mancato versamento, possa reputarsi in qualche modo equiparabile alle costrizioni vietate dalla normativa internazionale citata dall’appellante in materia di lavoro obbligatorio.
Trattasi infatti di prestazioni patrimoniali aventi la finalità di contribuire agli oneri del regime previdenziale dei lavoratori interessati ( cfr. anche Corte d’Appello di Milano n. 918/2019) dovendosi in particolare escludere che l’assoggettamento ad oneri contributivi previdenziali e alle conseguenti sanzioni in caso di inadempimento possa determinare, in relazione all’attività professionale dell’appellante, il cui esercizio costituisce frutto di una libera scelta, le fattispecie del lavoro forzato o obbligatorio (conv. OIL e art. 5 CDFUE), o della violazione della libertà professionale (art. 15 CDFUE) o della vita privata (art. 8 CEDU).
Deve a tale proposito ribadirsi quanto affermato dalla C. Cost. in ordine al doversi escludere qualsiasi possibilità di considerare l’assoggettamento ad obblighi contributivi alla stregua di una ulteriore condizione per l’esercizio dell’attività professionale (con conseguente violazione dei principi costituzionali racchiusi negli artt. 35 e 38 Cost.) stante che tale affermazione urta “contro l’ovvia constatazione che gli obblighi previdenziali sono considerati dalla legge non già come presupposto condizionante la legittimità dell’esercizio professionale, bensì come conseguenza del presupposto dell’imposizione contributiva, che è costituito da tale esercizio” (in tal senso C. Cost. 132/1984 emessa proprio in riferimento agli obblighi contributivi riconducibili all’esercizio dell’attività forense).
Con il quarto motivo l’appellante contesta la gravata sentenza, lamentando la violazione dell’art.23 Cost. (riserva di legge), della pronuncia della C. Cost. n. 190/2007 e dell’art. 1 del protocollo 1 CEDU in tema di misure ablative della proprietà, nella parte in cui aveva escluso la violazione, in relazione ai contributi oggetto di controversia, della riserva di legge ex art. 23 Cost. in materia di imposizioni personali o patrimoniali per non essere la misura della prestazione prevista da una specifica disposizione di legge essendo invece rimessa alla mera discrezionalità della Cassa.
Il motivo è infondato dovendosi ribadire, anche ai sensi dell’art. 118 bis disp. att. c.p.c., quanto già affermato con riferimento a fattispecie analoghe da questa stessa Corte di Appello in ordine alla idoneità del vincolo gravante sulla Cassa di “assicurare l’equilibrio di bilancio” e al suo assoggettamento al controllo ministeriale a limitare l’esercizio discrezionale del potere normativo di tale ente e a garantire la conformità al disposto dell’art. 23 Cost. della potestà regolamentare attribuita dal legislatore all’ente (cfr. in particolare App. Roma n. 1290/2019 prodotta in atti).
Si osserva infatti che la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost. ha carattere relativo e dunque, pur non consentendo alla legge di limitarsi a conferire un potere regolativo attraverso una “norma in bianco”, è rispettata quando la legge determina sufficienti criteri direttivi e traccia le linee generali della disciplina. Con riguardo alle prestazioni patrimoniali imposte, il rispetto della riserva si traduce nell’onere per il legislatore di indicare compiutamente il soggetto e l’oggetto della prestazione imposta, mentre l’intervento complementare e integrativo da parte della pubblica amministrazione deve rimanere circoscritto alla specificazione quantitativa (e qualche volta, anche qualitativa) della prestazione medesima, senza che residui la possibilità di scelte del tutto libere e perciò eventualmente arbitrarie della stessa p.a. (cfr. C. Cost. 269/2017).
Nel presente caso di specie la possibilità di determinare gli importi del contributo oggetto di controversia risulta essere stato attribuito alla potestà regolamentare dell’ente direttamente da una norma di legge ordinaria (l’art. 21, comma 9, l. 247/2012) e tale regolamento è soggetto a controllo ed approvazione ministeriale.
L’art. 2, comma 1, d.lgs. 509/94 garantisce “autonomia gestionale, organizzativa e contabile” al nuovo ente privatizzato; il successivo comma 2 individua come il limite generale alla suddetta autonomia il mantenimento dell’equilibrio di bilancio.
La necessità di criteri più stringenti del principio dell’equilibrio di bilancio si scontra con la previsione dell’autonomia gestionale organizzativa e contabile di cui sopra, così da risultare incompatibile con il sistema l’esistenza di limiti che, secondo l’appellante, dovrebbero spingersi fino a consentire di individuare in via immediata l’importo in euro da riscuotersi.
A conferma della sufficienza del criterio individuato dalla legge, si consideri che l’art. 3, comma 4, del d.lgs. 509/94 ha lasciato inalterata l’operatività della disciplina della contribuzione previdenziale già vigente nei singoli ordinamenti degli enti privatizzati.
Inoltre, l’art. 3, comma 12, l. 335/95 (Riforma Dini sulla delegificazione” ha stabilito che, per “assicurare l’equilibrio di bilancio”, gli enti previdenziali privati possono adottare i necessari “provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento e di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto all’introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti” (v. Cass. 19981/2017).
A corollario, la Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 7/2017, ha recentemente riaffermato la natura privatistica delle Casse, dichiarando l’illegittimità costituzionale della normativa che dispone l’obbligo di versare al bilancio dello Stato i risparmi di spesa di tali enti.
Dunque, in relazione alla Cassa forense, l’equilibrio del bilancio ed il pro rata in relazione alle anzianità già maturate sono principi che segnano efficacemente i limiti della riserva imposti dalla legge delegante. In tale contesto è ben difficile sostenere che la previsione di un contributo mediante adozione di un atto di natura regolamentare da parte della Cassa integri un “abuso” della potestà normativa attribuitale per legge, e si ponga perciò in contrasto con le norme dell’ordinamento interno e comunitario.
In particolare non risulta compromessa, come invece ritenuto dall’appellante, la tutela del diritto di proprietà di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, secondo cui “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge dei principi generali del diritto internazionale”. Il concetto di proprietà indicato dal Protocollo, ricondotto alla più ampia accezione di “bene” della persona fisica o giuridica, configura senz’altro una nozione autonoma e sovranazionale del diritto di proprietà, rafforzandone la tutela rispetto quella garantita dal singolo ordinamento, ma la Corte stessa ha precisato che la violazione della Convenzione, sotto il profilo della tutela del diritto in esame, è da raccordarsi alle ipotesi di “ingerenza illegale del diritto al rispetto dei beni…”:
La ricostruzione del potere regolamentare degli enti previdenziali privatizzati disegnato dalla normativa interna al nostro ordinamento (d.lgs. 509/94 e l. 335/95), come interpretato dai giudici di legittimità che dalla stessa Corte Costituzionale, non consente certo di relegare l’esercizio del potere regolamentare in parola al di fuori di un sistema di legalità. Va inoltre osservato che il comma 2 del medesimo articolo 1 del Protocollo stabilisce che “2.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributo delle ammende”. Siffatta disposizione introduce dunque nel sistema stesso della CEDU la facoltà degli Stati membri di fare uso di un certo “margine di apprezzamento” in ordine alla portata delle clausole di interferenza previste dalla Convenzione, lasciando ai singoli Stati un certo spazio di manovra prima che si configuri la concreta violazione di una libertà stabilita dalla suddetta Convenzione.
Ciò posto, l’esercizio del potere impositivo, realizzato nella fattispecie dalla Cassa, pare potersi inserire proprio in tale contesto, in cui l’esigenza di assicurare “il pagamento… di altri contributi”, può essere ricondotta a quel margine di apprezzamento consentito dalla norma, collocando all’interno del confine della legalità la misura in concreto adottata. Con un quinto motivo l’appellante contesta la gravata sentenza per violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, per omessa o carente motivazione nonché per violazione dell’art. 56 TFUE e dell’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE nella parte in cui aveva disatteso la sua richiesta di accertamento e dichiarazione del suo diritto ad una rigorosa proporzionalità, propria dell’assicurazione privata, tra contributi versati e prestazioni previdenziali secondo il sistema “mutualistico” e della violazione, sotto il profilo della normativa citata, del suo diritto a scegliere l’impresa di assicurazione con la quale contrarre, con conseguente disapplicazione del divieto di cui all’art. 21, comma 10, l. 247/2012.
Con il sesto motivo l’appellante contesta la gravata sentenza per avere disatteso la sua richiesta di accertamento della illegittimità dell’iscrizione alla Cassa nonostante l’impossibilità, alla stregua di quanto previsto dall’art. 4 del Regolamento Generale, di usufruire dell’integrazione al minimo essendo esclusa la possibilità per l’odierno appellante, in ragione della sua anzianità anagrafica al momento dell’iscrizione, di raggiungere i requisiti per il pensionamento di vecchiaia essendo previsto in tal caso, dalla citata disposizione regolamentare, esclusivamente l’erogazione di una prestazione calcolata secondo il sistema contributivo secondo i criteri previsti dalla l. 335/1995.
Lamenta a tale proposito la violazione dell’art. 112 c.p.c., degli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali UE, della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27/11/2000 (parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro), dell’art. 14 (divieto di discriminazione) della CEDU con riferimento all’art. 1 (protezione della proprietà) del Protocollo addizionale alla CEDU, degli artt. 3 e 38 Cost., dell’art. 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, degli artt. 2 e (protezione sociale) del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, dell’art. 12, paragrafo 1, della Carta Sociale Europea (diritto alla sicurezza sociale), come interpretata Comitato europeo dei diritti sociale nelle conclusioni 2013 sull’Italia, dell’art. 1, comma 1, l. n. 247/2012.
Con il settimo motivo l’appellante contesta la gravata sentenza per omessa o apparente motivazione, nella parte in cui aveva omesso di statuire sulle contestazioni effettuate nella precedente fase del giudizio in ordine alla natura regressiva del contributo minimo imposto.
Rileva a tale proposito come, a fronte della mancata garanzia di una pensione minima, l’imposizione di un contributo minimo in misura fissa per coloro, come avviene per l’appellante, abbiano percepito un reddito inferiore ad € 10.300 risulta avere carattere regressivo aumentando di fatto l’aliquota applicata al diminuire del reddito materialmente percepito dall’iscritto con conseguente violazione dei principi previsti in materia fiscale, applicabili anche ai contributi parafiscali di natura previdenziale.
Lamenta a tale proposito la violazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 117, comma 1, Cost., dell’art. 9 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, come interpretati dal Comitato sui diritti economici, sociali e culturali - General Comment NO. 19 - e del divieto di misure regressive.
Con il decimo motivo l’appellante censura la gravata sentenza per avere respinto le rivendicazioni attinenti alla natura asseritamente discriminatoria del trattamento subito, in ragione dell’età per essere l’appellante escluso, avendo più quaranta anni alla data di iscrizione, dalla possibilità di ottenere la pensione di vecchiaia, di inabilità e d’invalidità.
Afferma a tale proposito l’inidoneità del rilievo per cui l’iscrizione alla Cassa e la conseguente iscrizione all’albo, conseguirebbe dalla scelta del singolo di intraprendere l’esercizio della professione in un determinato momento della vita, rilevando di essere iscritto all’albo degli avvocati sin dall’anno 2006 ed avendo pertanto maturato, alla data dell’iscrizione avvenuta nel 2014, già 8 anni di iscrizione all’albo.
Lamenta l’inconferenza ai fini della decisione delle sentenze della Corte Costituzionale richiamate nella sentenza impugnata in quanto emesse con riferimento ad un differente o non più vigente regime normativo ed evidenziando a tale proposito come, a differenza della fattispecie esaminate dalle pronunce citate, il rapporto previdenziale tra il ricorrente e la fondazione non fosse ispirato al principio solidaristico della legge 546/1980 (che affermava inesistente perché delegificata e tacitamente abrogata) bensì al sistema contributivo puro evidenziando altresì la natura regressiva della contribuzione oggetto di controversia e contestando il riferimento contenuto nella gravata sentenza al disposto dell’art. 4 del Regolamento di attuazione dell’art. 21 l. 247/2012.
Afferma a tale ultimo proposito l’impossibilità del comportamento richiesto, stante l’entità dell’onere economico richiesto rispetto alla modestia dei redditi percepiti dall’appellante e rilevando altresì come l’appellante fosse stato escluso dalla pensione di invalidità perché iscritto in data non anteriore bensì posteriore al compimento del 40º anno di età. Lamenta quindi a tale proposito la violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4, c.p.c., il travisamento dei fatti, la discriminazione per età , la violazione degli artt. 21 (non discriminazione) e 34 (sicurezza sociale e assistenza sociale) della Carta dei diritti fondamentali Ue, della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27.11.2000, dell’art. 14 (divieto di discriminazione) CEDU con riferimento all’art. 1 (protezione della proprietà) del Protocollo 1 CEDU, degli artt. 3 e 38 Cost., dell’art. 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, dell’art. 2, par. 2, Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.
Tali doglianze, che si ritiene opportuno esaminare congiuntamente, non possono trovare accoglimento.
Mentre per quanto riguarda la componente costituita dal contributo integrativo non può che ribadirsi quanto già precedentemente evidenziato in ordine alla legittimità dell’imposizione di contributi in funzione solidaristica, in ordine alla legittimità dell’assoggettamento dell’odierno appellante dell’obbligo contributivo oggetto di controversia nel suo complesso, anche con riferimento alla impossibilità per l’appellante per motivi di età di accedere al trattamento minimo, non può che ribadirsi l’applicabilità anche al presente caso di specie di quanto affermato dalla C. Cost. con la sentenza n. 67/2018 (citata dal Tribunale) sulla legittimità del sistema previdenziale proprio della Cassa Forense nonostante il suo essere svincolato da una stretta cor- 177 rispettività tra contributi versati e prestazioni ricevute. “Il sistema della previdenza forense – quale disciplinato fondamentalmente dalla legge n. 576 del 1980, più volte modificata, e dalla successiva normativa sulla privatizzazione della Cassa, integrata dalla regolamentazione di quest’ultima – è ispirato ad un criterio solidaristico e non già esclusivamente mutualistico, come già riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 362 del 1997, n. 1008 del 1988, n. 171 del 1987, n. 169 del 1986, n. 133 e n. 132 del 1984).
Gli avvocati assicurati, che svolgono un’attività libero-professionale riconducibile anch’essa all’area della tutela previdenziale del lavoro, garantita in generale dal secondo comma dell’art. 38 Cost., non solo beneficiano - assumendone il relativo onere con l’assoggettamento al contributo soggettivo ed integrativo (ex artt. 10 e 11 della legge n. 576 del 1980) – della copertura da vari rischi di possibile interruzione o riduzione della loro attività con conseguente contrazione o cessazione del flusso di reddito professionale, ma anche condividono solidaristicamente la necessità che, verificandosi tali eventi, «siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita», come prescritto dal richiamato parametro costituzionale.
Ciò rappresenta, non diversamente da parallele forme di previdenza per altre categorie di liberi professionisti, la connotazione essenziale della previdenza forense, quale soprattutto risultante dalla riforma introdotta con la citata legge n. 576 del 1980, e segna il superamento dell’originario e risalente criterio, derivato dalle assicurazioni private, di accantonamento dei contributi in conti individuali per fare fronte, in chiave meramente assicurativa e non già solidaristica, a tali rischi. Le plurime prestazioni previdenziali previste dalla legge n. 576 del 1980, quali la pensione di vecchiaia (art. 2), quella di anzianità (art. 3), quella di inabilità (art. 4) o di invalidità (art. 5), quella di reversibilità (art. 7), rappresentano le distinte articolazioni di tale solidarietà mutualistica categoriale prescritta dal legislatore con carattere di obbligatorietà in attuazione del precetto costituzionale posto dall’art. 38, secondo comma, Cost. e da ultimo rafforzata dalla legge31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), nella misura in cui dall’iscrizione agli albi consegue automaticamente la contestuale iscrizione alla Cassa (art. 21, comma 8).
L’abbandono di un sistema interamente disciplinato dalla legge – dopo la trasformazione della Cassa in fondazione di diritto privato, al pari di altre casse categoriali di liberi professionisti, in forza del decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509 (Attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 32, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, in materia di trasformazione in persone giuridiche private di enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza) – e l’apertura all’autonomia regolamentare del nuovo ente non hanno indebolito il criterio solidaristico di base, che rimane quale fondamento essenziale di questo sistema integrato, di fonte ad un tempo legale (quella della normativa primaria di categoria) e regolamentare (quella della Cassa, di natura privatistica).
Con il citato d.lgs. n. 509 del 1994, il legislatore delegato, in attuazione di un complessivo disegno di riordino della previdenza dei liberi professionisti (art. 1, comma 23, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, recante «Interventi correttivi di finanza pubblica»), ha arretrato la linea d’intervento della legge (si è parlato in proposito di delegificazione della disciplina: da ultimo, Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 13 febbraio 2018, n. 3461), lasciando spazio alla regolamentazione privata delle fondazioni categoriali, alle quali è assegnata la missione di modellare tale forma di previdenza secondo il criterio solidaristico.
Rientra ora nell’autonomia regolamentare della Cassa dimensionare la contribuzione degli assicurati nel modo più adeguato per raggiungere la finalità di solidarietà mutualistica che la legge le assegna, assicurando comunque l’equilibrio di bilancio (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 509 del 1994) e senza necessità di finanziamenti pubblici diretti o indiretti (art. 1, comma 3, del medesimo decreto legislativo.), che sono anzi esclusi (sentenza n. 7 del 2017).
È tale connotazione solidaristica che giustifica e legittima l’obbligatorietà – e più recentemente l’automaticità ex lege – dell’iscrizione alla Cassa e la sottoposizione dell’avvocato al suo regime previdenziale e segnatamente agli obblighi contributivi. Il criterio solidaristico significa anche che non c’è una diretta corrispondenza, in termini di corrispettività sinallagmatica, tra la contribuzione, alla quale è chiamato l’avvocato iscritto, e le prestazioni previdenziali (ed anche assistenziali) della Cassa.
Si ha quindi che l’assicurato, che obbligatoriamente, e da ultimo automaticamente, accede al sistema previdenziale della Cassa (ora fondazione con personalità giuridica di diritto privato), partecipa, nel complesso ed in generale, al sistema delle prestazioni di quest’ultima, il cui intervento, al verificarsi di eventi coperti dall’assicurazione di natura previdenziale, si pone in rapporto causale con l’obbligo contributivo senza che sia necessario alcun più stretto ed individualizzato nesso di corrispettività sinallagmatica tra contribuzione e prestazioni.
È questo criterio solidaristico che assicura la corrispondenza al paradigma della tutela previdenziale garantita dall’art. 38, secondo comma, Cost. 3.2.- Posto tale criterio solidaristico, cui si ispira il sistema della Cassa, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e quello di adeguatezza dei trattamenti previdenziali (art. 38, secondo comma, Cost.) non risultano in sofferenza allorché l’accesso alle prestazioni della Cassa sia in concreto, per il singolo assicurato, altamente improbabile in ragione di circostanze di fatto legate al caso di specie, quale l’iscrizione alla previdenza forense in avanzata età anagrafica, sì che l’aspettativa di vita media lasci prevedere che difficilmente sarà possibile, all’assicurato, conseguire, ad esempio, la pensione di vecchiaia.
Il ridotto grado di probabilità per il professionista più anziano di conseguire benefici pensionistici, che presuppongono l’esercizio protratto dell’attività, attiene a circostanze fattuali ricollegabili al momento della vita in cui il soggetto sceglie di intraprendere la professione. Per altro verso, l’avvocato pensionato nella gestione INPS, iscritto alla Cassa, che di fatto non possa accedere alla pensione di anzianità o di vecchiaia, può in ogni caso maturare, dopo cinque anni di contribuzione, la pensione contributiva di vecchiaia, secondo quanto previsto dal Regolamento generale della Cassa.
Come riferisce il giudice rimettente e come è pacifico tra le parti, la normativa regolamentare della Cassa (art. 8 del Regolamento per le prestazioni previdenziali) prevede la pensione contributiva secondo i criteri della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) in rapporto al montante dei contributi soggettivi versati entro un determinato tetto reddituale, nonché delle somme corrisposte a titolo di riscatto o di ricongiunzione.
Tale prestazione vale comunque ad escludere che la contribuzione versata senza la possibilità concreta di conseguire alcun trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità rimanga erogata “a vuoto”: c’è comunque, anche in caso di iscrizione alla Cassa in età avanzata, la possibilità concreta di conseguire una prestazione previdenziale di entità calcolata con il sistema contributivo.
In conclusione, l’art. 10 della legge n. 576 del 1980, prevedendo l’ordinario obbligo contributivo per l’avvocato assicurato, anche se iscritto alla Cassa in età avanzata, come il ricorrente nel giudizio a quo, sì da rendere altamente improbabile il raggiungimento dei presupposti per conseguire la pensione di vecchiaia o di anzianità, è immune dalle censure mosse, in generale, dal giudice rimettente in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, Cost.” (cfr. C. Cost n. 67/2018).
Sempre al fine di escludere la sussistenza della asserita discriminazione per età dell’appellante risultano tuttora estensibili, per analogia di fattispecie, anche le considerazioni già effettuate, sia pure con riferimento alla previgente disciplina, dalla C. Cost. con la sentenza n. 132/1984 ove aveva escluso, in ragione della componente solidaristica che caratterizza tale sistema previdenziale, l’illegittimità costituzionale della disciplina all’epoca vigente anche nella parte in cui negava il diritto alla pensione di inabilità e di invalidità per gli iscritti alla Cassa da data successiva al compimento del quarantesimo anno di età e subordinava il diritto alla pensione di vecchiaia e a quella di anzianità a condizioni (compimento di un periodo di iscrizione e di assicurazione di almeno trenta anni per la pensione di vecchiaia, e di almeno trentacinque anni per la pensione di anzianità) “non realizzabili o difficilmente realizzabili da parte di coloro che fossero stati iscritti (eventualmente senza loro colpa o addirittura loro malgrado) in età avanzata”.
Tali considerazioni valgono, a maggior ragione, alla luce della possibilità gli iscritti oltre il 40° anno di età, pure evidenziata dal Tribunale a fondamento della sua decisione, di conseguire comunque, alla stregua di quanto previsto dall’art. 4 del Regolamento di attuazione dell’art. 21 della l. 247/2012, i benefici di cui all’art. 3 del medesimo articolo con il pagamento di una speciale contribuzione (pari al doppio di contributi minimi, integrativo e soggettivo) dell’anno di decorrenza dell’iscrizione per ciascun anno, a partire dal quello del compimento del 39° anno di età, fino a quello anteriore alla decorrenza dell’iscrizione.
In tale complessivo contesto deve infine escludersi qualsiasi possibilità di ravvisare nella normativa men- 179 zionata, e in particolare nell’obbligatorietà della iscrizione alla Cassa, la violazione della normativa comunitaria in materia di libera circolazione di beni e servizi all’interno dell’Unione Europea di cui all’art. 56 TFUE (del tutto generico risulta il richiamo dell’appellante all’art. 38 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, norma quest’ultima che si limita ad affermare che “Nelle politiche dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori”).
Trattasi di precetto che risulta inapplicabile al presente caso di specie in ragione del carattere pubblicistico di previdenza ed assistenza che l’ente resistente continua a svolgere anche successivamente alla sua trasformazione in persona giuridica privata (cfr. C. Cost. n. 248/1997) e che lo rende, pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, anche in ragione della connotazione in parte solidaristica che lo caratterizza, non riconducibile alla nozione, strettamente privatistica, di “servizio” contenuta all’articolo 57 TFUE (alla cui stregua “sono considerate come servizi le prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano regolate dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone” indicando, nel successivo comma 2, attività di carattere eminentemente privatistico quali “le attività di carattere industriale; le attività di carattere commerciale; le attività artigiane e le attività delle libere professioni” Tali conclusioni trovano riscontro nella stessa sentenza della CGUE 218-2000 del 22/1/2002, citata dallo stesso appellante, la quale pur affermando in via astratta che lo scopo sociale di un regime assicurativo non è di per sé sufficiente ad escludere che l’entità considerata sia qualificata attività economica, ha tuttavia escluso la possibilità di considerare attività economica ai sensi del diritto della concorrenza, quella assicurativa svolta dall’Inail, rilevando come la stessa fosse assoggettata al controllo dello Stato e caratterizzata dal principio di solidarietà (il quale implica delle prestazioni erogate all’assicurato non proporzionate ai tributi da questo versati) e tale da concorrere alla “gestione di uno dei rami tradizionali della previdenza sociale”, cfr, in particolare punti da 31 a 45 della menzionata sentenza).
L’assenza di ogni profilo di violazione della normativa comunitaria rende pertanto inaccoglibile la richiesta dell’appellante di disapplicazione dell’art. 21, comma 10, l. 247/2012. Né le rivendicazioni dell’appellante potrebbero trovare accoglimento sotto il profilo della pretesa natura regressiva del contributo minimo imposto non potendosi ritenere applicabili, in ambito previdenziale, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, i principi previsti in materia tributaria, in particolare dall’art. 53 Cost. in ordine alla capacità contributiva (in ordine al concernere la capacità contributiva esclusivamente i tributi in senso proprio cfr. Cass. n. 16762 del 07/11/2003).
Con l’ottavo motivo l’appellante contesta la gravata sentenza per omessa motivazione o per motivazione apparente, nella parte in cui aveva affermato che nessuna deduzione concreta sarebbe stata effettuata dall’appellante per ritenere la misura del contributo obbligatorio individuata in modo irragionevole.
Rileva a tale proposito come l’ingerenza della Cassa nell’imporre il contributo oggetto di controversia fosse irragionevole e sproporzionata con conseguente violazione del diritto di proprietà dell’appellante. Lamenta a tale proposito la violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione del principio di proporzionalità, dell’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU, dell’art. 117, comma 1 Cost. (sotto profilo della violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali).
Il motivo è infondato.
Risulta effettivamente generica, tanto più alla luce delle considerazioni precedentemente effettuate in ordine al vincolo per la Cassa di determinare l’entità dei contributi in ragione del mantenimento dell’equilibrio di bilancio, la doglianza dell’appellante relativa alla eccessività e sproporzionatezza dell’onere contributivo. Trattasi di doglianza relativamente alla quale, così come ritenuto dal giudice di prime cure, non vi sono deduzioni specifiche, essendosi l’odierno appellante, limitato, nel precedente grado di giudizio (così come nella presente fase di impugnazione) a lamentare apoditticamente la irragionevole sproporzionatezza della ingerenza della fondazione in un contesto complessivo di rivendicazioni attinenti, in particolare, alla pretesa natura discriminatoria degli oneri contributivi, all’assenza di corrispettività con le prestazioni previste e alla regressività dell’aliquota applicata, censure queste ultime, relativamente alle quali si richiamano le considerazioni precedentemente effettuate.
Con un ulteriore nono motivo l’appellante contesta la gravata sentenza nella parte in cui aveva respinto la richiesta di cancellazione dalla Cassa per violazione da parte di quest’ultima del principio democratico per non essere, in ragione di quanto previsto dallo Statuto della fondazione, alla data della iscrizione, eleggibile a componente del Comitato dei Delegati della stessa (uno degli organi di tale ente previsti dallo Statuto), non avendo a tale data, pur essendo avvocato da 8 anni, maturato l’anzianità di iscrizione alla Cassa di 5 anni. In particolare l’odierno appellante riferisce le sue censure all’art. 13, comma 2, dello Statuto ove prevede l’eleggibilità al Comitato dei Delegati degli “avvocati iscritti alla Cassa Forense e ad un albo da almeno cinque anni da almeno cinque anni…”
Contesta l’erroneità della gravata sentenza nella parte in cui aveva affermato l’infondatezza di tale doglianza in ragione della possibilità per l’odierno appellante di iscriversi volontariamente alla Cassa maturando così i requisiti per l’eleggibilità al Comitato dei delegati.
Rileva come tale considerazione, gravando il ricorrente di un comportamento oneroso sotto il profilo economico (iscrizione volontaria alla Cassa con pagamento del relativo contributo) per poter accedere all’esercizio di un diritto altrimenti negato, non avrebbe comunque fatto venir meno la natura discriminatoria e antidemocratica di tali previsioni statutarie, ribadendone il carattere discriminatorio di tale disposizione in quanto fondata sull’età (in mancanza di anzianità di 5 anni) ovvero sulla sua condizione economica dell’appellante (in quanto non obbligato all’iscrizione alla fondazione per non avere superato la soglia reddituale di € 10.300).
Lamenta a tale proposito la violazione del principio democratico, dell’art. 117, comma 1, Cost., dell’art. 11 CEDU, degli artt. 3 e 18 Cost., dell’art. 9 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, come interpretati dal Comitato sui diritti economici, sociali e culturali – General Comment NO. 19 affermando la sussistenza di una discriminazione per condizione economica ed età. Anche tale motivo non può trovare accoglimento. Si osserva che il Tribunale, pur escludendo l’illegittimità e la natura discriminatoria della mancata attribuzione all’appellante del diritto di elettorato passivo al Comitato dei delegati, aveva comunque rilevato espressamente che ciò “in ogni caso, non farebbe venire meno l’obbligo di iscrizione alla Cassa, correlato all’esercizio della professione”.
Trattasi di affermazione avente rilievo di per sé pienamente assorbente rispetto alla infondatezza delle rivendicazioni avanzate a tale proposito dall’appellante in ordine alla pretesa illegittimità della sua iscrizione alla Cassa, avverso la quale quest’ultimo non si confronta e non avanza contestazioni specifiche, con conseguente inidoneità del motivo di appello a vanificare tale parte della gravata sentenza. In ogni caso si osserva, sotto diverso ed ulteriore profilo, che tali rivendicazioni non possono ritenersi fondate, risultando non irragionevole, nè di per sé discriminatorio, limitare l’elettorato passivo ad un organo di particolare rilievo della Cassa (ai sensi di quanto previsto dall’art. 11 dello Statuto il Comitato dei delegati rappresenta gli iscritti alla Cassa, svolgendo le funzioni di particolare rilievo previste in tale articolo ed indicate analiticamente dallo stesso appellante nell’atto di impugnazione) alla previa maturazione di una anzianità minima di iscrizione alla Cassa stessa (piuttosto che a quella di iscrizione all’albo professionale).
Trattasi di determinazione rivolta alla generalità degli iscritti con effetti di per sé transitori (il suddetto diritto di elettorato passivo non risulta precluso in modo permanente ma solo differito al maturare di una anzianità di iscrizione minima) e che risulta quindi espressione, di per sé non irragionevole, dell’autonomia gestionale attribuita all’ente dal legislatore e tale comunque da non pregiudicare il diritto dell’appellante alla partecipazione all’attività associativa della Cassa (che ben può essere realizzata, ad esempio, tramite l’esercizio del diritto di elettorato attivo). Alla stregua di tali considerazioni l’appello dovrà pertanto essere respinto.