Tribunale di Roma 5.7.2021 n. 6496
3/2021 SETTEMBRE - DICEMBRE
Tribunale di Roma 5.7.2021 n. 6496, Giud. Vincenzi, OMISSIS (in proprio, Avv. Jean Paul OMISSIS) c. Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense (Avv. Papandrea).
Previdenza Forense – Contributi – Contributi omessi – Riscossione tramite ruolo esattoriale – facoltà dell’ente.
Previdenza Forense – Struttura sistema previdenziale forense – Sistema solidaristico e non mutualistico – Legittimità costituzionale
Previdenza Forense – Pensione – Criteri di calcolo – Reddito prodotto nell’anno di maturazione del diritto a pensione – Computo – Esclusione.
Previdenza Forense – Pensione – Criteri di computo – Reddito oltre tetto reddituale – Computo Esclusione.
L’art. 18, comma 6, L. 576/1980 attribuisce all’Ente una mera facoltà e non un obbligo di procedere al recupero delle somme non versate spontaneamente dagli iscritti mediante riscossione tramite ruolo esattoriale.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, penultimo comma, L. 576/1980 in ragione della struttura del sistema previdenziale forense, ispirato a criteri solidaristici e non già esclusivamente mutualistici.
Ai sensi dell’art. 2, comma 1, L. 576/1980, il reddito prodotto nell’anno di maturazione del diritto a pensione non può essere incluso nel conteggio dell’ammontare della pensione di vecchiaia, rientrando unicamente nel calcolo del supplemento biennale.
Ai sensi dell’art. 2, comma 2, L. 576/1980, ai fini pensionistici rileva soltanto il reddito professionale dichiarato entro il tetto reddituale di cui all’art. 10, comma 1, lett. a) L. 576/1980.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato telematicamente in data 27.7.2020 ed iscritto a ruolo il 28.7.2020 l’avv. OMISSIS ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 5103/2020, emesso in data 11.7.2020, notificato a mezzo pec il 14.7.2020, con il quale il Tribunale di Roma sezione lavoro ha ingiunto all’opponente il pagamento, in favore della Cassa opposta, di € 57.047,75, a titolo di omessi o tardivi pagamenti di contributi previdenziali e relative sanzioni per l’annualità 2014, sanzioni per irregolare invio del mod. 5 relativo all’anno 2016 e sanzioni per ritardato versamento per annualità 2017 e 2018, oltre interessi di mora e spese di procedura.
La parte opponente ha dedotto: che il decreto ingiuntivo ottenuto dalla Cassa Forense è viziato da nullità insanabile non sussistendo le condizioni che legittimano l’emissione del provvedimento monitorio; che infatti l’art. 18 della Legge n. 576/1980, comma 6 dispone che “La Cassa può provvedere alla riscossione dei contributi insoluti e, in genere delle somme e degli interessi di cui al presente articolo e all’articolo 17, a mezzo di ruoli da essa compilati e da porre in riscossione secondo le norme previste per la riscossione delle imposte dirette”;
che la prassi seguita dalla Cassa è sempre stata quella di iscrivere a ruolo i suoi crediti ed agire in executivis per il tramite dell’Agente della riscossione; che nel caso di specie, invece, la Cassa ha preferito rivolgersi direttamente al Giudice Ordinario ottenendo un decreto ingiuntivo;
che l’azione della Cassa costituisce altresì un abuso del processo atteso che non è l’ente a vantare un credito nei confronti dei ricorrente, ma il contrario;
che infatti l’opponente è titolare di pensione di vecchiaia della Cassa Avvocati, concessa con delibera del 04/09/1999, dal 1998, e la sua pensione non è più stata riliquidata in base ai contributi versati non per i primi 5 anni, sino al 2003, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1 della legge 141/92; che i contributi successivi versati sono andati a fondo perduto;
che il trattamento pensionistico erogato dalla Cassa Forense risulta errato; che infatti le somme dei redditi Irpef sulle quali viene liquidata la pensione non sono corrette, in quanto non rispondono ai parametri previsti dall’art. 1 e dall’art. 4 della legge n. 141/1992;
che dalla lettera dell’Ente del 1.10.1999, nella quale si annunciava l’ammissione alla pensione diretta, si evince che nel calcolo dei redditi dei migliori dieci anni dell’ultimi quindicennio, l’ente previdenziale non includeva il 1998 e diminuiva il reddito del 1996, che da Lit 177.077.000 diviene Lit. 126.861.900 (rivalutato), mentre tutti gli anni precedenti rimangono invariati, come si evince dalla scheda inviata dall’Ente; che il calcolo effettuato dalla Cassa Forense è altresì errato atteso che la pensione annua deve essere suddivisa in un anno solare di 12 mesi e non già in 13 mesi;
che da questo errore scaturisce un trattamento più basso per il ricorrente, in quanto la pensione avrebbe dovuto essere di Lit. 2.124.535 mensili e non di Lit 1.961.109, con una differenza, in meno, di Lit. 163.435. (84,37 euro);
che calcolando correttamente l’anno 1996, cioè l’importo di Lit. 177.077.000 (e non ridotto inspiegabilmente a Lit. 126.861.900) rivalutato a Lit. 183.382.919 (al 1998), il totale dei redditi Irpef sarebbe stato di Lire 439.895.372 (con una differenza in più di Lit. 56.521.019);
che conseguentemente, la situazione pensionistica avrebbe dovuto essere: Importo redditi Irpef rivalutato Lit. 439.895.372 x1,75 : 100 x 38 = Lit. 29.253.042 annue di pensione: 12 mensilità = Lit. 2.437.753; che pertanto, la pensione giusta avrebbe dovuto essere pari a Lit. 2.437.753 mensili e non già Lit. 1.961.109 mensili;
che il totale migliori redditi di dieci anni tra gli ultimi 15 anni è pari adeuro 290.380,55;
che tra la pensione erogata dalla Cassa Forense e quella che effettivamente sarebbe dovuta al OMISSIS vi è una differenza mensile in danno di quest’ultimo di Lit. 1.156.008, pari ad euro 596,80;
di essere quindi creditore di Euro 201.764,04 nei confronti della Cassa Forense per arretrati di integrazione di ratei mensili dalla data del collocamento a riposo al 30 giugno 2020; che i diritti pensionistici sono imprescrittibili;
di chiedere la condanna dell’ente previdenziale alla restituzione di quanto illegittimamente non corrisposto al ricorrente;
che in ogni caso la normativa su cui la Cassa fonda l’erogazione del trattamento previdenziale presenta profili di illegittimità costituzionale, per violazione agli articoli 3 e 36 della Costituzione perché alle somme che si pretendono quali contributi previdenziali non corrisponde da parte della Cassa alcuna prestazione;
che l’art. 2 della legge n. 576/80 così come modificato dalla legge n. 141/92, art. 1, è vulnerativo dell’art. 36 della Costituzione e del principio costituzionale del «sinallagma previdenziale»;
che se è vero che la normativa sulla previdenza forense è ispirata al principio solidaristico, nella fattispecie sono stati violati i principi di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità ai quali, da sempre, ispira tutta la giurisprudenza della Corte Costituzionale, oltre a risultare discriminatorio ai sensi dell’art. 14 della CEDU e dell’art. all’art. 1 del Protocollo n. 12;
che la legge n. 141/92 art. 1 comma 5° ha violato tali principi costituzionali perché ha limitato la riliquidazione della pensione degli avvocati, in caso di continuità della professione dopo il pensionamento e al versamento dei relativi contributi previdenziali, ai soli 5 anni successivi alla stessa senza prevedere alcuna riliquidazione ulteriore in costanza di versamenti di contributi per gli anni seguenti;
che le pretese vantate dalla Cassa non sono dovute. Tanto esposto l’opponente ha concluso chiedendo di volere:
“1) in via preliminare, revocare la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto;
2) nel merito, revocare il decreto ingiuntivo n. 5103/2020 dell’11 luglio 2020, accertando l’infondatezza delle pretese avanzate dall’ente previdenziale;
3) in via riconvenzionale, accertare e dichiarare il buon diritto del deducente ad ottenere la riliquidazione della pensione sulla base dei calcoli di cui al presente gravame, pari ad un trattamento mensile al momento del collocamento a riposo di Lire 3.117.117 e non già di Lit. 1.961.109;
4) condannare la Cassa forense al pagamento degli arretrati e della rivalutazione del trattamento, quantificati in € 201.764,04, occorrendo, previo espletamento di una CTU;
5) in via subordinata disporre in ogni caso la compensazione tra quanto dovuto dall’ente previdenziale e quello che asseritamente dovrebbe essere corrisposto a quest’ultima da parte del ricorrente;
6) in via ulteriormente subordinata – ma tecnicamente pregiudiziale – laddove il Giudice adito ritenesse di condividere i profili di costituzionalità sopra delineati, rimettere innanzi alla Corte Costituzionale la questione di legittimità relativamente all’art. 2, penultimo comma, della legge n. 576/1980, in relazione agli artt. 3 e 36 della Costituzione, nonché al combinato disposto degli artt. 117 della nostra Legge fondamentale, dell’art. 1 del Protocollo Aggiuntivo alla CEDU, dell’art. 14 della Convenzione medesima e dell’art. all’art. 1 del Protocollo n. 12;
7) vittoria di spese, diritti ed onorari di lite”. Si è costituita in giudizio la Cassa opposta depositando memoria difensiva telematica ed allegato fascicolo.
In particolare la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense ha dedotto:
l’inammissibilità della domanda riconvenzionale;
che requisiti di ammissibilità della domanda riconvenzionale dipendono dalla comunanza della stessa con il titolo fatto valere nella domanda principale, ovvero deve trattarsi di un collegamento obiettivo, insussistente nel caso di specie; che è necessario, infatti, che tra le due domande sussista quantomeno un collegamento oggettivo, vale a dire causa petendi e petitum;
che la domanda riconvenzionale spiegata dall’opponente, invece, appare collegata alla domanda principale unicamente in virtù di un collegamento soggettivo delle parti;
che in ogni caso risulta maturata la prescrizione del diritto dell’opponente a vedersi riliquidata la pensione;
che infatti, l’avv. OMISSIS avrebbe potuto legittimamente esercitare tale diritto solo entro i successivi 10 anni dal provvedimento di ammissione al trattamento pensionistico;
che la Suprema Corte con le sentenze n. 501/2009 e 16415/2019 ha previsto la possibilità per la Cassa Forense di rettificare la misura della pensione solo entro il decennio successivo al provvedimento di ammissione al trattamento pensionistico;
che per analogia anche il pensionato può richiedere una modifica del trattamento pensionistico esclusivamente entro il decennio successivo al provvedimento di ammissione;
che nel caso di specie l’avv. OMISSIS è stato ammesso alla pensione di vecchiaia con decorrenza dal 01.08.1998, con l’importo mensile lordo di € 1.961,09 e, successivamente, ha visto riconoscersi la liquidazione dei supplementi biennale e triennale, rispettivamente per gli importi di € 144,59 lordi e 43,93 lordi;
che la richiesta di riliquidazione della pensione è avvenuta, invece, esclusivamente nel 2020, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, ovvero 22 anni dopo l’emissione del provvedimento di ammissione al trattamento pensionistico, quando il diritto a richiedere il ricalcolo risulta prescritto;
che nel merito l’avv. OMISSIS non muove alcuna sostanziale contestazione in merito alla fondatezza del credito dell’Ente per il quale è stato emesso il decreto ingiuntivo di pagamento;
che il comma 6, dell’art. 18 della Legge n. 576/1980, dispone che “La Cassa può provvedere alla riscossione dei contributi insoluti […] a mezzo di ruoli da essa compilati e da porre in riscossione secondo le norme previste per la riscossione delle imposte dirette”;
che pertanto la procedura di riscossione dei contributi insoluti mediante iscrizione a ruolo per il tramite dell’Agente di Riscossione, rappresenta una mera possibilità per la Cassa;
che non esiste alcuna norma che vieti alla Cassa di procedere al recupero dei crediti dalla medesima vantati mediante strumenti alternativi al ruolo esattoriale, né una norma che preveda l’obbligo per l’Ente di riscuotere i contributi a mezzo ruoli esattoriali;
che l’anno 1998 è stato correttamente, considerato solo quale moltiplicatore e il relativo reddito non è stato inserito nel conteggio, poiché ai sensi dell’art. 2 della legge n. 576/1980 “la pensione è pari, per ogni anno di effettiva iscrizione e contribuzione all’1,75% della media dei più elevati redditi professionali dichiarati dall’iscritto ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), risultanti dalle dichiarazioni relative ai quindi anni solari anteriori alla maturazione del diritto a pensione”;
che la citata norma prevede che la pensione di vecchiaia venga calcolata sui redditi relativi agli anni anteriori all’anno in cui si matura il diritto a pensione, ovvero, nel caso di specie, sino al 1997;
che il 1998 – rientrato nel calcolo della pensione appunto unicamente come moltiplicatore e non come reddito – è invece rientrato come reddito nel calcolo del supplemento biennale e di quello triennale;
che erra l’opponente a ritenere che il reddito relativo all’anno 1996 sia stato inopinatamente ridotto da Lit. 177.077.00 a Lit 126.861.900, poiché l’art. 2, comma 2, della Legge n. 576/80, prevede che “per il calcolo della media di cui sopra, si considera solo la parte di reddito professionale soggetta al contributo di cui all’art. 10, primo comma, lett. a); i redditi annuali, escluso l’ultimo, sono rivalutati a norma dell’art. 15 della presente legge”;
che in ossequio alla citata disposizione, il reddito relativo all’anno 1996 è stato correttamente inserito nel conteggio della pensione di vecchiaia del professionista entro il tetto indicato dalla normativa che, al tempo in cui l’avv. OMISSIS ha maturato il diritto alla pensione, era stato fissato in Lire 122.100.00;
che anche i successivi Regolamenti delle Prestazioni adottati da Cassa, con riferimento alle prestazioni di vecchiaia prevedono espressamente che, per il calcolo della quota base (art. 4), si consideri solamente la parte di reddito professionale compresa entro il tetto reddituale di cui all’art. 2, comma 1, lettera a) del Regolamento dei contributi, mentre, per la quota modulare (art. 6), prevedono il calcolo con il metodo contributivo, sulla base dei contributi di cui agli artt. 3 e 4 del Regolamento dei contributi; che non corrisponde al vero che “la pensione annua deve essere suddivisa in un anno solare di 12 mesi e non già di 13 mesi” in quanto Cassa Forense provvede ad erogare 13 mensilità e non già 12 ex art. 14, punto 4 del Regolamento, che prevede che “Le pensioni sono pagate in tredici mensilità di eguale importo. La tredicesima mensilità è pagata nel mese di dicembre”;
che l’importo della pensione erogata in favore dell’avv. OMISSIS è stata correttamente rivalutata anno per anno, ai sensi dell’art. 16 della Legge n. 576/80 (come modificato dall’art. 8 della Legge n. 141/92), secondo i coefficienti determinati annualmente, con delibera del Consiglio di Amministrazione della Cassa, in proporzione delle variazione dell’indice annuo medio rilevato dall’ISTAT (doc. 11 – delibere del Consiglio di Amministrazione della Cassa dal 1999 al 2020);
che le norme che prevedono il pagamento della contribuzione di solidarietà da parte di tutti i professionisti iscritti alla Cassa, compresi i pensionati che conservino detta iscrizione, sono espressione del principio costituzionale di solidarietà di cui all’art. 38 della Costituzione, che connota tutti i sistemi previdenziali categoriali; che la Corte Costituzionale è da tempo intervenuta sull’argomento, dichiarando infondate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 10, I comma, lett. b), e 2, II e V comma, legge n. 576/80, nella parte in cui prevedono che i professionisti produttori di redditi professionali eccedenti il tetto debbano fruire di una pensione commisurata ai soli redditi rientranti nella predetta fascia, pur avendo versato, anche se in misura ridotta, i contributi relativi alla parte di redditi eccedente (cfr. C. Cost., sent. 4 maggio 1984, n. 132);
che in senso conforme alla suddetta sentenza della Corte Costituzionale si è espressa la giurisprudenza di merito nelle sentenze citate nella memoria di costituzione; che la Corte di Cassazione, con sentenza n. 5098/03, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli art. 10 e 11 della legge n. 576/80 per contrasto con gli artt. 2, 3 e 38 Cost.;
che da ultimo la Corte Costituzionale, con sentenza n. 67/2018, in giudizio avente ad oggetto la questione di legittimità costituzionale del sistema previdenziale forense, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 10 della legge n. 576/80, con riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., ribadendo che il sistema della previdenza forense è ispirato ad un criterio solidaristico e non già esclusivamente mutualistico;
che la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 254/2016 del 18/10/2016 ha affermato che i Regolamenti adottati dalla Cassa “sono riconducibili ad un processo di privatizzazione degli enti pubblici di previdenza e assistenza che si inserisce nel contesto del complessivo riordinamento o della soppressione di enti previdenziali” e che “questo assetto è stato realizzato attraverso una sostanziale delegificazione della materia”;
che la Corte di Cassazione con sentenza n. 3461/2018 ha riaffermato il principio già espresso dalla Corte Costituzionale, in base al quale, in virtù dell’esigenza di stabilità di bilancio – che rappresenta il principale limite funzionale all’esercizio dei suoi poteri regolamentari – la Cassa può, con proprio regolamento, abrogare a disposizioni di legge;
che la richiesta di CTU è meramente esplorativa.
Tanto esposto la parte opposta ha concluso chiedendo di volere: “In via preliminare accertare e dichiarare che l’opposizione non è fondata su prova scritta né di pronta soluzione e, per l’effetto, dichiarare la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto n. 5103/2020 (R.G. n. 18578/2020), emesso dal Tribunale di Roma in data 11.07.2020;
sempre in via preliminare: accertare e dichiarare l’inammissibilità della domanda riconvenzionale ex adverso spiegata e per l’effetto, rigettare le avverse domande;
ancora in via preliminare: accertare e dichiarare l’intervenuta prescrizione del diritto del ricorrente al ricalcolo del trattamento pensionistico, per tutti i motivi sopra esposti e, per l’effetto, rigettare le avverse domande; nel merito rigettare l’opposizione a decreto ingiuntivo ex adverso spiegata poiché infondata in fatto e in diritto oltreché non provata, con conseguente conferma del decreto ingiuntivo opposto n. 5103/2020 (R.G. n. 18578/2020), emesso dal Tribunale di Roma in data11.07.2020 Con vittoria di spese, competenze ed onorari del presente giudizio”.
Respinta la richiesta di concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto la causa è stata rinviata per la decisione, concesso termine per note.
All’udienza odierna, dopo la discussione, il Giudice ha deciso la causa ex art. 429 cpc con sentenza contestuale.
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Si osserva che con ricorso monitorio la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense ha chiesto di volere ingiungere all’avv. OMISSIS il pagamento di € 57.047,75 a titolo di “omesso versamento del contributo integrativo relativo alle annualità 2014 e 2016, oltre sanzioni e interessi, nonché dell’importo dovuto a titolo di sanzione per l’irregolare invio del modello 5 relativo all’annualità 2016 e per quanto dovuto a titolo di sanzioni per il ritardato versamento per le annualità 2017 e 2018” (cfr. ricorso monitorio), irregolarità contributive contestate all’avv. OMISSIS con nota di accertamento prot. n. 2019/189041 (di cui all. 9 e 10 doc. 2 fasc. monitorio), rimasta inevasa.
Con decreto ingiuntivo n. 5103/2020 dell’11.7.2020 non provvisoriamente esecutivo il Tribunale di Roma ha ingiunto all’avv. OMISSIS di pagare, entro il termine di giorni 40 dalla notificazione, a favore della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense la somma di € 57.047,75, oltre interessi di mora e spese di procedura.
Si osserva che la Suprema Corte ha chiarito che “L’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, nel quale il giudice deve accertare la fondatezza della pretesa fatta valere dall’opposto, che assume la posizione sostanziale di attore, mentre l’opponente, il quale assume la posizione sostanziale di convenuto, ha l’onere di contestare il diritto azionato con il ricorso, facendo valere l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda o l’esistenza di fatti estintivi o modificativi di tale diritto, e può proporre domanda riconvenzionale, a fondamento della quale può anche dedurre un titolo non strettamente dipendente da quello posto a fondamento della ingiunzione, quando non si determini in tal modo spostamento di competenza e sia pur sempre ravvisabile un collegamento obiettivo tra il titolo fatto valere con l’ingiunzione e la domanda riconvenzionale, tale da rendere opportuna la celebrazione del “simultaneus processus” (Cass. sez. 2 sent. n. 6091 del 04/03/2020).
Anche in precedenza la Cassazione aveva precisato che “La relazione tra domanda principale e domanda riconvenzionale, ai fini dell’ammissibilità di quest’ultima, non va intesa in senso restrittivo, nel senso che entrambe debbano dipendere da un unico ed identico titolo, essendo sufficiente che fra le contrapposte pretese sia ravvisabile un collegamento obiettivo, tale da rendere consigliabile ed opportuna la celebrazione del simultaneus processus, a fini di economia processuale ed in applicazione del principio del giusto processo di cui all’art. 111, primo comma, Cost.” (Cass. sez. 3 sent. n. 27564/2011).
Nel caso di specie la domanda riconvenzionale avanzata dall’opponente non determina uno spostamento di competenza e deve essere esaminata, per ragioni di opportunità, nel presente procedimento attesa anche la domanda subordinata di compensazione tra quanto dovuto dall’opponente all’ente previdenziale e quanto dovrebbe essere corrisposto dalla Cassa a parte opponente (punto n. 5 delle conclusioni del ricorso in opposizione).
Ciò premesso, quanto all’eccepito mancato rispetto da parte della Cassa dell’art. 18 della L. n. 576/1980, comma 6 che dispone che “La Cassa può provvedere alla riscossione dei contributi insoluti e, in genere delle somme e degli interessi di cui al presente articolo e all’articolo 17, a mezzo di ruoli da essa compilati e da porre in riscossione secondo le norme previste per la riscossione delle imposte dirette”, si osserva che trattasi di una mera facoltà e non di un obbligo sicché appare del tutto legittimo il ricorso alla procedura monitoria da parte della Cassa.
Quanto alla domanda riconvenzionale l’opponente, titolare di pensione di vecchiaia della Cassa Avvocati dal 1998, ha dedotto l’erroneità dei calcoli effettuati dalla Cassa ai fini pensionistici, in quanto non rispondenti ai parametri previsti dall’art. 2 L. 576/1980 come sostituito dall’art. 1 L. n. 141/92 che prevede che “La pensione di vecchiaia è corrisposta a coloro che abbiano compiuto almeno sessantacinque anni di età, dopo almeno trenta anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa e sempre che l’iscritto non abbia richiesto il rimborso di cui al primo comma dell’articolo 21.
La pensione è pari, per ogni anno di effettiva iscrizione e contribuzione, all’1,75 per cento della media dei più elevati dieci redditi professionali dichiarati dall’iscritto ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), risultanti dalle dichiarazioni relative ai quindici anni solari anteriori alla maturazione del diritto a pensione”.
L’art. 4 della L. 141/92 stabilisce che “Ai fini del diritto a pensione si calcolano per intero l’anno solare in cui ha avuto decorrenza l’iscrizione e l’anno solare in cui è stata presentata la domanda per la pensione di anzianità, di inabilità o di invalidità o si è verificato l’evento da cui deriva il diritto alla pensione di vecchiaia o indiretta. 2. La disposizione di cui al comma 1 vale anche per il calcolo dell’ammontare della pensione”.
Lamenta la parte opponente la mancata inclusione da parte della Cassa opposta dell’anno 1998 nel calcolo dei migliori dieci anni dell’ultimo quindicennio.
Al riguardo si osserva che la Cassa correttamente ha considerato l’anno 1998 solo quale moltiplicatore ai sensi dell’art. 2 della legge n. 576/1980, che prevede espressamente che la pensione viene calcolata sulla “media dei più elevati redditi professionali dichiarati dall’iscritto ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), risultanti dalle dichiarazioni relative ai quindici anni solari anteriori alla maturazione del diritto a pensione”.
In ossequio alla citata normativa la pensione di vecchiaia dell’opponente è stata calcolata sui redditi relativi agli anni anteriori a quello in cui è maturato il diritto a pensione, ovvero sino al 1997, mentre il reddito relativo all’anno 1998 è rientrato unicamente nel calcolo del supplemento biennale e di quello triennale (cfr. doc. 8 e doc. 9 allegati alla memoria di costituzione).
Parte opponente ha eccepito, altresì, che la Cassa nel calcolo della pensione ha ridotto il reddito del 1996, da Lit. 177.077.000 a Lit. 126.861.900.
Al riguardo occorre rilevare che l’art. 2, comma 2, della Legge n. 576/80 prevede espressamente che “Per il calcolo della media di cui sopra, si considera solo la parte di reddito professionale soggetta al contributo di cui all’art. 10, primo comma, lett. a); i redditi annuali, escluso l’ultimo, sono rivalutati a norma dell’art. 15 della presente legge”.
Pertanto la suindicata disposizione prevede l’utilizzabilità, ai fini pensionistici, del solo reddito professionale dichiarato entro il tetto reddituale di cui all’art. 10, comma 1, lettera a) della legge n. 576/80: in conseguenza il reddito relativo all’anno1996 è stato correttamente inserito dalla Cassa nel conteggio della pensione di vecchiaia del professionista entro il tetto indicato dalla normativa che, al tempo in cui l’avv. OMISSIS ha maturato il diritto alla pensione, era stato fissato in Lire 122.100.00 (cfr. delibera del Consiglio di Amministrazione della Cassa n. 799 del 28.07.1995 con la quale viene fissato il limite di reddito di cui all’art. 10, comma 1, lett. a) L. n. 576/80, doc.10 fasc. Cassa).
L’opponente ha, altresì, dedotto l’erroneità del calcolo della pensione effettuato dalla Cassa opposta atteso che “la pensione annua deve essere suddivisa in un anno solare di 12 mesi e non già di 13 mesi” (cfr. pag. 7 del ricorso in opposizione).
L’assunto è infondato atteso che la Cassa Forense provvede ad erogare 13 mensilità e non già 12, come prevede l’art. 14, punto 4, del Regolamento: “Le pensioni sono pagate in tredici mensilità di eguale importo.
La tredicesima mensilità è pagata nel mese di dicembre”. Infine, quanto ai dedotti profili di illegittimità costituzionale della normativa su cui la Cassa fonda l’erogazione del trattamento previdenziale, si osserva che l’art. 2 penultimo comma della L. 576/1980 come modificato dall’art. 1 comma 5 L. n. 141/1992 prevede che “Coloro che, dopo la maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia, restano iscritti all’albo dei procuratori o degli avvocati o all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, hanno diritto ad un supplemento di pensione alla scadenza dei primi due anni successivi alla maturazione del diritto a pensione e ad un ulteriore supplemento al compimento dei cinque anni dalla maturazione del diritto a pensione ed in ogni caso dal mese successivo alla cancellazione dagli albi per qualsiasi motivo, anche per causa di morte, quando tale cancellazione sia antecedente al compimento dei cinque anni dalla maturazione del diritto a pensione.
I supplementi sono calcolati per ogni anno successivo a quello di maturazione del diritto a pensione, in base alle percentuali di cui al primo e al quarto comma, riferite alla media dei redditi professionali risultanti dalle dichiarazioni successive a quelle considerate per il calcolo della pensione, con applicazione delle disposizioni di cui al secondo comma”.
Lamenta l’opponente la violazione da parte della suindicata norma degli artt. 2 e 36 della Costituzione “perché alle somme che si pretendono quali contributi previdenziali non corrisponde da parte della Cassa alcuna prestazione” (pag. 9 e 10 del ricorso).
La censura è manifestamente infondata.
Invero, la Corte Costituzionale nella sentenza n. 67/2018 depositata il 30.3.2018, avente ad oggetto proprio la questione di legittimità costituzionale del sistema previdenziale forense, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 10 della Legge n. 576/80, con riferimento agli art. 3 e 38 Cost. ribadendo che il sistema della previdenza forense è ispirato ad un criterio solidaristico e non già esclusivamente mutualistico: “Il sistema della previdenza forense − quale disciplinato fondamentalmente dalla legge n. 576 del 1980, più volte modificata, e dalla successiva normativa sulla privatizzazione della Cassa, integrata dalla regolamentazione di quest’ultima è ispirato ad un criterio solidaristico e non già esclusivamente mutualistico, come già riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 362 del 1997, n. 1008 del 1988, n. 171 del 1987, n. 169 del 1986, n. 133 e n. 132 del 1984). Gli avvocati assicurati, che svolgono un’attività libero- professionale riconducibile anch’essa all’area della tutela previdenziale del lavoro, garantita in generale dal secondo comma dell’art. 38 Cost., non solo beneficiano – assumendone il relativo onere con l’assoggettamento al contributo soggettivo ed integrativo (ex artt. 10 e 11 della legge n. 576 del 1980) − della copertura da vari rischi di possibile interruzione o riduzione della loro attività con conseguente contrazione o cessazione del flusso di reddito professionale, ma anche condividono solidaristicamente la necessità che, verificandosi tali eventi, «siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita», come prescritto dal richiamato parametro costituzionale. Ciò rappresenta, non diversamente da parallele forme di previdenza per altre categorie di liberi professionisti, la connotazione essenziale della previdenza forense, quale soprattutto risultante dalla riforma introdotta con la citata legge n. 576 del 1980, e segna il superamento dell’originario e risalente criterio, derivato dalle assicurazioni private, di accantonamento dei contributi in conti individuali per fare fronte, in chiave meramente assicurativa e non già solidaristica, a tali rischi.
Le plurime prestazioni previdenziali previste dalla legge n. 576 del 1980, quali la pensione di vecchiaia (art. 2), quella di anzianità (art. 3), quella di inabilità (art. 4) o di invalidità (art. 5), quella di reversibilità (art. 7), rappresentano le distinte articolazioni di tale solidarietà mutualistica categoriale prescritta dal legislatore con carattere di obbligatorietà in attuazione del precetto costituzionale posto dall’art. 38, secondo comma, Cost. e da ultimo rafforzata dalla legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), nella misura in cui dall’iscrizione agli albi consegue automaticamente la contestuale iscrizione alla Cassa (art. 21, comma 8).
L’abbandono di un sistema interamente disciplinato dalla legge – dopo la trasformazione della Cassa in fondazione di diritto privato, al pari di altre casse categoriali di liberi professionisti, in forza del decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509 (Attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 32, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, in materia di trasformazione in persone giuridiche private di enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza) – e l’apertura all’autonomia regolamentare del nuovo ente non hanno indebolito il criterio solidaristico di base, che rimane quale fondamento essenziale di questo sistema integrato, di fonte ad un tempo legale (quella della normativa primaria di categoria) e regolamentare (quella della Cassa, di natura privatistica).
Con il citato d.lgs. n. 509 del 1994, il legislatore delegato, in attuazione di un complessivo disegno di riordino della previdenza dei liberi professionisti (art. 1, comma 23, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, recante «Interventi correttivi di finanza pubblica »), ha arretrato la linea d’intervento della legge (si è parlato in proposito di delegificazione della disciplina: da ultimo, Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 13 febbraio 2018, n. 3461), lasciando spazio alla regolamentazione privata delle fondazioni categoriali, alle quali è assegnata la missione di modellare tale forma di previdenza secondo il criterio solidaristico.
Rientra ora nell’autonomia regolamentare della Cassa dimensionare la contribuzione degli assicurati nel modo più adeguato per raggiungere la finalità di solidarietà mutualistica che la legge le assegna, assicurando comunque l’equilibrio di bilancio (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 509 del 1994) e senza necessità di finanziamenti pubblici diretti o indiretti (art. 1, comma 3, del medesimo decreto legislativo.), che sono anzi esclusi (sentenza n. 7 del 2017). È tale connotazione solidaristica che giustifica e legittima l’obbligatorietà – e più recentemente l’automaticità ex lege – dell’iscrizione alla Cassa e la sottoposizione dell’avvocato al suo regime previdenziale e segnatamente agli obblighi contributivi. Il criterio solidaristico significa anche che non c’è una diretta corrispondenza, in termini di corrispettività sinallagmatica, tra la contribuzione, alla quale è chiamato l’avvocato iscritto, e le prestazioni previdenziali (ed anche assistenziali) della Cassa.
Si ha quindi che l’assicurato, che obbligatoriamente, e da ultimo automaticamente, accede al sistema previdenziale della Cassa (ora fondazione con personalità giuridica di diritto privato), partecipa, nel complesso ed in generale, al sistema delle prestazioni di quest’ultima, il cui intervento, al verificarsi di eventi coperti dall’assicurazione di natura previdenziale, si pone in rapporto causale con l’obbligo contributivo senza che sia necessario alcun più stretto ed individualizzato nesso di corrispettività sinallagmatica tra contribuzione e prestazioni.
È questo criterio solidaristico che assicura la corrispondenza al paradigma della tutela previdenziale garantita dall’art. 38, secondo comma, Cost. 3.2. Posto tale criterio solidaristico, cui si ispira il sistema della Cassa, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e quello di adeguatezza dei trattamenti previdenziali (art. 38, secondo comma, Cost.) non risultano in sofferenza allorché l’accesso alle prestazioni della Cassa sia in concreto, per il singolo assicurato, altamente improbabile in ragione di circostanze di fatto legate al caso di specie, quale l’iscrizione alla previdenza forense in avanzata età anagrafica, sì che l’aspettativa di vita media lasci prevedere che difficilmente sarà possibile, all’assicurato, conseguire, ad esempio, la pensione di vecchiaia.
Il ridotto grado di probabilità per il professionista più anziano di conseguire benefici pensionistici, che presuppongono l’esercizio protratto dell’attività, attiene a circostanze fattuali ricollegabili al momento della vita in cui il soggetto sceglie di intraprendere la professione. Per altro verso, l’avvocato pensionato nella gestione INPS, iscritto alla Cassa, che di fatto non possa accedere alla pensione di anzianità o di vecchiaia, può in ogni caso maturare, dopo cinque anni di contribuzione, la pensione contributiva di vecchiaia, secondo quanto previsto dal Regolamento generale della Cassa.
Come riferisce il giudice rimettente e come è pacifico tra le parti, la normativa regolamentare della Cassa (art. 8 del Regolamento per le prestazioni previdenziali) prevede la pensione contributiva secondo i criteri della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) in rapporto al montante dei contributi soggettivi versati entro un determinato tetto reddituale, nonché delle somme corrisposte a titolo di riscatto o di ricongiunzione.
Tale prestazione vale comunque ad escludere che la contribuzione versata senza la possibilità concreta di conseguire alcun trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità rimanga erogata “a vuoto”: c’è comunque, anche in caso di iscrizione alla Cassa in età avanzata, la possibilità concreta di conseguire una prestazione previdenziale di entità calcolata con il sistema contributivo. In conclusione, l’art. 10 della legge n. 576 del 1980, prevedendo l’ordinario obbligo contributivo per l’avvocato assicurato, anche se iscritto alla Cassa in età avanzata, come il ricorrente nel giudizio a quo, sì da rendere altamente improbabile il raggiungimento dei presupposti per conseguire la pensione di vecchiaia o di anzianità, è immune dalle censure mosse, in generale, dal giudice rimettente in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, Cost. 3.3...”.
In conseguenza deve essere respinta la domanda riconvenzionale avanzata dall’opponente, rendendo superfluo l’esame dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla Cassa opposta. Occorre a questo punto evidenziare che l’opponente non ha mosso alcuna specifica contestazione in ordine al credito della Cassa sotteso al decreto ingiuntivo opposto, emergente dalla documentazione prodotta dalla Cassa. Per le considerazioni che precedono l’opposizione deve essere rigettata, con conseguente conferma del decreto ingiuntivo opposto.
Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo in calce. Con la presente sentenza, il Tribunale di Roma ha confermato il diritto della Cassa di procedere al recupero dei propri crediti mediante il ricorso alla procedura di cui agli artt. 633 ss. c.p.c. e ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 2, penultimo comma, L. 576/1980per contrarietà con gli artt. 3 e 36 Cost.
Sotto il primo profilo, il giudice di prime cure ha osservato che l’art. 18 L. 576/1980, prevedendo testualmente che «La Cassa può provvedere alla riscossione dei contributi insoluti e, in genere delle somme e degli interessi di cui al presente articolo e all’art. 17, a mezzo di ruoli da essa compilati, resi esecutivi dall’intendenza di finanza competente e da porre in riscossione secondo le norme previste per la riscossione delle imposte dirette», attribuisce all’Ente una mera facoltà e non un obbligo di procedere al recupero delle somme non versate spontaneamente dagli iscritti mediante riscossione tramite ruolo esattoriale, né, del resto, un siffatto obbligo può riscontrarsi in altre disposizioni applicabili alla Cassa.
Per quanto concerne la dedotta questione di legittimità costituzionale, si rammenta che, ai sensi dell’art. 2, penultimo comma, L. 576/1980 e dei regolamenti pro tempore vigenti, «coloro che, dopo la maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia, restano iscritti all’albo dei procuratori o degli avvocati o all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, hanno diritto ad un supplemento di pensione alla scadenza dei primi due anni successivi alla maturazione del diritto a pensione e ad un ulteriore supplemento al compimento dei cinque anni dalla maturazione del diritto a pensione ed in ogni caso dal mese successivo alla cancellazione dagli albi per qualsiasi motivo, anche per causa di morte, quando tale cancellazione sia antecedente al compimento dei cinque anni dalla maturazione del diritto a pensione.
I supplementi sono calcolati per ogni anno successivo a quello di maturazione del diritto a pensione, in base alle percentuali di cui al primo e al quarto comma, riferite alla media dei redditi professionali risultanti dalle dichiarazioni successive a quelle considerate per il calcolo della pensione, con applicazione delle disposizioni di cui al secondo comma».
In proposito, il giudice di merito, richiamandosi alla sentenza della Corte Costituzionale n. 67/2018 – avente specificatamente ad oggetto la questione di legittimità costituzionale del sistema previdenziale forense – ha rigettato la dedotta questione di legittimità costituzionale, ribadendo la natura solidaristica e non già esclusivamente mutualistica del sistema previdenziale forense.
Sul punto, il giudice delle leggi, nella menzionata pronuncia, ha affermato che «Il sistema della previdenza forense − quale disciplinato fondamentalmente dalla L. n. 576 del 1980, più volte modificata, e dalla successiva normativa sulla privatizzazione della Cassa, integrata dalla regolamentazione di quest’ultima − è ispirato ad un criterio solidaristico e non già esclusivamente mutualistico, come già riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 362 del 1997, n. 1008 del 1988, n. 171 del 1987, n. 169 del 1986, n. 133 e n. 132 del 1984).
Gli avvocati assicurati, che svolgono un’attività libero-professionale riconducibile anch’essa all’area della tutela previdenziale del lavoro, garantita in generale dal secondo comma dell’art. 38 Cost., non solo beneficiano – assumendone il relativo onere con l’assoggettamento al contributo soggettivo ed integrativo (ex artt. 10 e 11 della L. n. 576 del 1980) − della copertura da vari rischi di possibile interruzione o riduzione della loro attività con conseguente contrazione o cessazione del flusso di reddito professionale, ma anche condividono solidaristicamente la necessità che, verificandosi tali eventi, “siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita”, come prescritto dal richiamato parametro costituzionale.
Ciò rappresenta, non diversamente da parallele forme di previdenza per altre categorie di liberi professionisti, la connotazione essenziale della previdenza forense, quale soprattutto risultante dalla riforma introdotta con la citata L. n. 576 del 1980, e segna il superamento dell’originario e risalente criterio, derivato dalle assicurazioni private, di accantonamento dei contributi in conti individuali per fare fronte, in chiave meramente assicurativa e non già solidaristica, a tali rischi». In aggiunta, la Corte ha rilevato che «con il citato d.lgs. n. 509 del 1994, il legislatore delegato, in attuazione di un complessivo disegno di riordino della previdenza dei liberi professionisti […], ha arretrato la linea d’intervento della legge (si è parlato in proposito di delegificazione della disciplina: da ultimo, Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 13 febbraio 2018, n. 3461), lasciando spazio alla regolamentazione privata delle fondazioni categoriali, alle quali è assegnata la missione di modellare tale forma di previdenza secondo il criterio solidaristico. Rientra ora nell’autonomia regolamentare della Cassa dimensionare la contribuzione degli assicurati nel modo più adeguato per raggiungere la finalità di solidarietà mutualistica che la legge le assegna, assicurando comunque l’equilibrio di bilancio (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 509 del 1994) e senza necessità di finanziamenti pubblici diretti o indiretti (art. 1, comma 3, del medesimo decreto legislativo), che sono anzi esclusi (sentenza n. 7 del 2017)» (sull’autonomia regolamentare della Cassa, stante l’intervenuta delegificazione della materia, cfr. anche Cass. n. 4980/2018, n. 5287/2018 e n. 10866/2020).
Ciò posto, appare il caso di rammentare che la Corte Costituzionale ha già avuto modo di intervenire sul punto, dichiarando infondate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 10, comma 1, lett. b), e 2, commi 2 e 5, L. 576/80, nella parte in cui prevedono che i professionisti produttori di redditi professionali eccedenti il tetto debbano fruire di una pensione commisurata ai soli redditi rientranti nella predetta fascia, pur avendo versato, anche se in misura ridotta, i contributi relativi alla parte di redditi eccedente (cfr. C. Cost., sent. 4 maggio 1984, n. 132).
In senso conforme alla suddetta sentenza della Corte Costituzionale si sono espressi la Corte di Appello di Roma, con sentenze n. 1555/2014, n. 712/2014 e n. 2877/2013, la Corte di Appello di Milano, con sentenza del 10/07/2014, la Corte di Appello di Brescia, con sentenza n. 127/2012, il Tribunale di Milano, con le sentenze n. 5157/2010, n. 1166/2010, n. 1774/2010 n. 2957/2010 e n. 5157/2010 ed il Tribunale di Roma, con sentenza n. 1753/2014.
Inoltre, il giudice delle leggi, con sentenza n. 5098/03, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionalità degli art. 10 e 11 L. 576/80 per contrasto con gli artt. 2, 3 e 38 Cost., affermando che, in un sistema previdenziale ispirato al principio solidaristico, il livello delle prestazioni è naturalmente sganciato dall’ammontare delle contribuzioni a vantaggio di soggetti o categorie meno fortunati, restando in ogni caso demandato alla discrezionalità del legislatore di stabilire le forme e i modi della partecipazione alla spesa previdenziale (cfr. nello stesso senso, Cass., n. 10458/98).
Peraltro, con riferimento alla questione della legittimità della previsione del pagamento della contribuzione soggettiva di solidarietà fino al tetto per gli iscritti pensionati (nella misura del 3% del reddito dall’anno solare successivo al compimento dei cinque anni dalla maturazione del diritto a pensione, ovvero dalla maturazione del diritto all’ultimo supplemento, percentuale portata al 4% dal Regolamento dei contributi deliberato dal Comitato dei Delegati in data 17/03/2006, al 5% dal Regolamento dei contributi deliberato dal Comitato dei Delegati in data 19/09/2008, al 7% dal Regolamento dei contributi deliberato dal Comitato dei Delegati del 5/09/2012, al 7,25% a partire dal 1° gennaio 2017 e al 7,50% con decorrenza dal 1° gennaio 2021 dal medesimo Regolamento, confermato dal successivo Regolamento dei contributi deliberato dal Comitato dei Delegati del 26/06/2015), si rileva che la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 254/2016 del 18/10/2016, ha affermato che i Regolamenti adottati dalla Cassa “sono riconducibili ad un processo di privatizzazione degli enti pubblici di previdenza e assistenza che si inserisce nel contesto del complessivo riordinamento o della soppressione di enti previdenziali” e che “questo assetto è stato realizzato attraverso una sostanziale delegificazione della materia”.
Il giudice delle leggi, inoltre, nella sentenza n. 7/2017, depositata in data 11/01/2017, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa che dispone l’obbligo di versamento al bilancio dello Stato delle somme derivanti dalla riduzione della spesa per consumi intermedi delle Casse di previdenza e di assistenza privatizzate. Detta pronuncia, al di là del tema specifico affrontato, assume portata particolarmente significativa per l’Ente, avendo la Corte rimarcato, in motivazione, l’autonomia delle Casse e la discrezionalità che ne caratterizza il relativo esercizio regolamentare. Da ultimo, il Tribunale di Roma ha confermato la correttezza delle modalità di calcolo del trattamento pensionistico di vecchiaia adottate dalla Cassa, ribadendo che, ai sensi dell’art. 2, comma 1, L. 576/1980, la pensione di vecchiaia viene calcolata sui redditi relativi agli anni anteriori a quello in cui è maturato il diritto a pensione, potendo quest’ultimo essere incluso unicamente nel conteggio del supplemento biennale.
Inoltre, in base al disposto dell’art. 2, comma 2, L. 576/1980, ai fini pensionistici rileva soltanto il reddito professionale dichiarato entro il tetto reddituale di cui all’art. 10, comma 1, lett. a) L. 576/1980.