AVVOCATO IN DOLCE ATTESA TRA WELFARE-STATE, DIFESA DEI DIRITTI E FEMMINISMO
1/2018 GENNAIO - APRILE
La Legge di bilancio 2018 ha portato alle donne che esercitano la professione forense un’agognata ma inaspettata sorpresa che rappresenta un considerevole passo in avanti nella tutela di diritti costituzionalmente garantiti. Infatti, prima dell’attuale intervento legislativo, nell’ambito della professione forense (ma, in quello delle libere professioniste, in generale) nel quale, come è noto, non è prevista alcuna astensione obbligatoria dal lavoro in caso di gravidanza o maternità, la tutela sul punto risultava fortemente carente, creando, tra l’altro, anche una ingiustificata disparità di trattamento con la tutela accordata alla lavoratrice dipendente.
Nell’ambito del lavoro dipendente, infatti, opera il Decreto legislativo 26/03/2001 n° 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), nel quale sono state riunite e coordinate tra loro le disposizioni vigenti in materia, a cominciare dal primo fondamentale provvedimento normativo a tutela delle lavoratrici madri, costituito dalla Legge 30/12/1971 n. 1204. Sulla base delle previsioni contenute in detto Decreto, le lavoratrici che prestano la loro opera alle dipendenze di datori di lavoro privati o pubblici non possono essere adibite al lavoro nel periodo del c.d. congedo di maternità, cioè durante i due mesi precedenti la data presunta del parto e durante i tre mesi successivi al parto (art. 16). Per tale periodo è prevista infatti l’astensione obbligatoria dal lavoro a beneficio della lavoratrice, e la mancata osservanza di tale disposizione da parte del datore di lavoro costituisce anche un fatto penalmente rilevante, punito con l’arresto fino a sei mesi. Nell’ambito del lavoro libero professionale, nel quale, come si è detto, si registrava la mancanza di una disciplina che assicurasse una piena tutela delle esigenze connesse con la maternità, si è sempre avvertita la necessità di individuare analoghe forme di tutela attraverso il ricorso a strumenti di tipo diverso. Infatti nel settore del lavoro dipendente, poiché viene in considerazione essenzialmente il solo rapporto tra datore di lavoro e lavoratrice, l’esigenza della maternità può essere efficacemente perseguita attraverso lo strumento dell’astensione dal lavoro. Diversamente, nel settore del lavoro autonomo e, a maggior ragione nel campo della libera professione forense, vengono in considerazioni molteplici e diversificati rapporti che si pongono su più piani, a loro volta intersecati tra loro in maniera alquanto complessa.
Nell’avvocatura, infatti, da un lato, sussiste il rapporto fondamentale che lega il professionista al proprio cliente che a lui si affida; dall’altro, sussistono ulteriori rapporti che legano il professionista non solo all’Autorità Giudiziaria, ma anche ai Colleghi e alle parti interessati alla medesima vicenda processuale. Ed esistono infine, ma non ultime, esigenze di speditezza del processo. La complessità della situazione sopra delineata fa sì che, nell’ambito della tutela della maternità, una soluzione identica a quella adottata per il lavoro subordinato non risulterebbe obiettivamente praticabile, in quanto non terrebbe conto in maniera adeguata delle diverse componenti. Del resto, anche le stesse soluzioni approntate rispetto a tale problematica con l’intervento normativo in esame non coinvolgono tutta la gamma dell’intera attività professionale svolta dall’avvocato, ma si rivolgono essenzialmente all’attività processuale e, in particolare, a quella di udienza. Non si deve poi dimenticare il fatto che anche in un passato non troppo lontano, il mondo dell’avvocatura possedeva, tradizionalmente, un forte retaggio maschile che ha prodotto condizionamenti sino agli inizi del nuovo millennio. Non a caso, anche se ormai il numero di uomini e di donne nell’ambito della avvocatura attiva (cioè non pensionata) è al pareggio, è soltanto sotto ai 50 anni di età che il numero delle donne ha abbondantemente superato quello degli uomini. Nel recente passato, allo scopo di fornire tutela alla maternità, si è fatto ricorso allo strumento dei protocolli di intesa locali, con i quali l’Avvocatura - attraverso i Comitati Pari Opportunità e i Consigli dell’Ordine - e l’Autorità Giudiziaria hanno stabilito, nelle singole sedi, regole per consentire alla professionista, durante il periodo corrispondente al congedo di maternità, di astenersi dalla attività di udienza. Peraltro, i limiti connessi allo strumento dei protocolli erano chiari e pesanti.
Innanzitutto l’adozione di queste intese era totalmente rimessa alla valutazione discrezionale delle varie Istituzioni operanti nelle singole sedi, con la conseguenza che anche l’applicazione di tali regole era limitata localmente. La rilevanza “territoriale“ dei singoli protocolli determinava, inoltre, previsioni caratterizzate da disomogeneità, che finiva inevitabilmente per riflettersi anche sulla maggiore o minore vincolatività per l’Autorità Giudiziaria del rispetto del diritto di astenersi da parte della professionista. Il nuovo intervento legislativo, frutto di un emendamento sottoscritto da parlamentari appartenenti a diverse forze politiche e successivamente approvato con consensi provenienti dai vari schieramenti, presenta l’indubbio vantaggio di costituire una disciplina omogenea - e vincolante per tutti allo stesso modo - che considera lo stato di gravidanza e la maternità come legittimo impedimento a comparire nei procedimenti giudiziari. La legge 27.12.2017 n. 205 al comma 465 dell’art. 1 prevede, infatti che all’art. 81–bis delle disposizioni per l’attuazione del c.p.c. e disposizioni transitorie sia aggiunto il seguente comma: “Quando il difensore documenta il proprio stato di gravidanza, il giudice, ai fini della fissazione del calendario del processo ovvero della proroga dei termini in esso previsti, tiene conto del periodo compreso tra i due mesi precedenti la data presunta del parto e i tre mesi successivi. La disposizione del primo periodo si applica anche nei casi di adozione nazionale e internazionale nonché di affidamento del minore avendo riguardo ai periodi previsti dall'articolo 26 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151. Dall'applicazione del presente comma non può derivare grave pregiudizio alle parti nelle cause per le quali è richiesta un'urgente trattazione”. Nell’ambito del procedimento penale, invece, il legittimo impedimento è preso in considerazione nel comma 466 della medesima legge che aggiunge all’art. 420-ter del c.p.p. il seguente comma 5 –bis: “ Agli effetti di cui al comma 5 il difensore che abbia comunicato prontamente lo stato di gravidanza si ritiene legittimamente impedito a comparire nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi ad esso”. Come si può notare, le due disposizioni sono diversamente formulate, e già una prima lettura consente di cogliere alcune differenze che appaiono poco ragionevoli. Infatti, nell’ambito civilistico sono espressamente richiamate, ai fini di costituire un impedimento legittimo, anche le ipotesi dell’adozione nazionale ed internazionale nonché dell’affidamento del minore. Mentre, nell’ambito del processo penale, mancando un esplicito richiamo alle fattispecie sopra menzionate, la portata della previsione normativa è limitata ai soli casi di gravidanza e maternità “naturale”.
I motivi per cui si è optato per questa scelta appaiono del tutto ingiustificati e potrebbero porgere il fianco a rilievi di legittimità costituzionale. Ulteriore diversità tra l’ambito civile e quello penale è rappresentata dalla previsione di una clausola che consente al solo giudice civile di non applicare la nuova norma qualora possa derivarne, nei processi caratterizzati dalla necessità di urgente trattazione, grave pregiudizio per le parti. Analoga previsione manca nella disciplina introdotta nel processo penale, e anche in tal caso non sembrerebbero sussistere motivi tali da imporre una scelta diversa per i due procedimenti. Al di là delle discrasie sopra evidenziate, la nuova normativa costituisce senza dubbio un primo passo molto importante verso una più efficace tutela della donna impegnata nella professione forense. Tale intervento, pur essendo finalizzato primariamente alla difesa della salute della madre e del nascituro, va ben oltre la mera tutela della lavoratrice madre, in quanto garantisce nel contempo anche altri importanti diritti di portata più generale, che risultano sottesi rispetto alla problematica specifica della maternità. Viene infatti in evidenza in primo luogo il fondamentale diritto di difesa della parte coinvolta nel processo, tutelato dall’art. 24 della Costituzione ed inteso come garanzia di essere assistiti da un difensore scelto liberamente in base ad un rapporto fiduciario, garanzia che rischierebbe di essere compromessa nel caso in cui il processo dovesse comunque svolgersi o proseguire con altro difensore. In secondo luogo, viene in evidenza il diritto alle pari opportunità, espressione del più generale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, ed inteso come possibilità concreta per la donna che esercita la professione forense di potersi proporre nei confronti della potenziale clientela su un piano di parità con il professionista uomo, senza essere svantaggiata dall’impedimento a seguire personalmente la difesa nel caso di gravidanza.
Infine, viene presa in considerazione l’esigenza per la libera professionista di non vedere compromesso, in dipendenza dello stato di gravidanza o di maternità, il proprio diritto al lavoro tutelato dall’art. 4 della Costituzione, come espressione dell’irrinunciabile necessità dell’individuo di perseguire la propria realizzazione personale, contribuendo al progresso materiale e spirituale della società. In conclusione, al di là delle piccole problematicità sopra evidenziate, il giudizio che può esprimersi riguardo al recente intervento normativo è complessivamente positivo. Infatti, benché siano sicuramente superati i tempi narrati da William Shakespeare nel Mercante di Venezia, nei quali la donna per esercitare la professione di avvocato doveva fingersi uomo, restano, comunque, ancora spazi per perseguire una maggiore ed effettiva parità di genere nella professione forense, e l’intervento normativo in esame è efficacemente intervenuto su uno di questi spazi.