L’autonomia della Cassa Forense e prospettive di interventi
3/2020 SETTEMBRE - DICEMBRE
Nel cameo previdenziale d’indole statale numerose sono state le riforme che nel tempo si sono succedute, riforme che hanno di fatto (e di diritto) reso sempre più difficile l’accesso alla pensione. La riforma Amato nel 1992 aumentò di cinque anni per uomini e donne l’età per la pensione di vecchiaia, portandola rispettivamente – e sia pure gradualmente – a 60 e 55 anni e aumentò anche gli anni di contributi (da 15 a 20).
Nel 1995 la riforma Dini ebbe ad introdurre il principio penalizzante del calcolo contributivo della pensione, e nel 2004 si ebbe la riforma Maroni con il c.d. scalone, sostituito nell’anno 2007, da “scalini” e “quote” della riforma Prodi. Nel 2010 la riforma Sacconi stabilì un altro principio – fondamentale adesso in materia pensionistica – consistente nell’adeguare l’età pensionabile all’aumentata speranza di vita terrena.
Tale sistema venne ulteriormente portato alle estreme conseguenze con la riforma Fornero nel 2011, che eleva l’età pensionabile a 67 anni ed i contributi necessari per il diritto a pensione, a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a 41 anni e 10 mesi per le donne. Un ginepraio di date, leggi ed interpretazioni autentiche che non hanno eliminato la confusione in ordine al principio della quota 100 (somma tra anni di contributi efficaci ed anni di età), principio lentamente eroso e che oggi da più parti si vuole disapplicare totalmente tornando ad un sistema pensionistico contributivo puro senza alcuna correzione di sorta.
Di fatto oggi l’accesso alla pensione è sempre più difficoltoso. Cassa Forense “lato sensu”, in ogni occasione di nuove promulgazioni di riforme pensionistiche, ha tentato di adeguarsi efficacemente agli ultimi principi senza ledere i c.d. diritti quesiti degli iscritti in ordine a quanto dagli stessi maturato per il meccanismo del pro rata, tutt’ora applicato.
Il progressivo aumento della platea degli iscritti ammontanti ad oltre 245.000, e il deficit previdenziale derivante da contrazioni negative e decrementi dei versamenti previdenziali – conseguenti anche alle sospensioni nei pagamenti di rito per la circostanza emergenziale COVID-19 – hanno posto alla Cassa Forense problematiche che sono state sempre tempestivamente affrontate. Esigenze di stabilità richiedono, infatti, interventi periodici per garantire la sostenibilità dei conti degli enti previdenziali in una prospettiva cinquantennale per la salvaguardia dell’equilibrio finanziario di lungo termine (Un esempio in merito è il mancato recepimento della c.d. quota 100 da parte di Cassa Forense).
Va da sé che Cassa Forense ha e mantiene la sua autonomia che discende direttamente dalla legge, autonomia che ha avuto ed ha come “scambio” l’esclusione da ogni forma di contributo pubblico diretto o indiretto. Non bisogna mai dimenticare che la Cassa Forense attua le garanzie dell’art. 38 della Costituzione: la Cassa Forense è un ente privato che svolge la funzione di cui all’art. 38 Cost., atteso che l’attività dell’avvocato (e degli altri liberi professionisti) rientra nell’ambito applicativo di tale disposizione, atteso che anche i liberi professionisti vanno tutelati dal punto di vista previdenziale al verificarsi di una delle situazioni individuate dallo stesso art. 38 Cost..
Non ricevendo “aiuto” alcuna né dallo Stato né dalla collettività in generale – aiuti espressamente vietati dalla legge – è necessario che il legislatore eviti lo “spezzatino” della posizione assicurativa dell’avvocato e de iure condendo dia attuazione al principio dell’attrazione nella previdenza forense dei redditi conseguenti ad attività “collaterali” eventualmente svolte dall’avvocato.