L’INPS tra vecchie e nuove fattispecie di frode e indebita percezione di erogazioni pubbliche
2/2021 MAGGIO-AGOSTO
PREMESSA
Il quadro normativo dei reati posti a tutela dell’interesse patrimoniale degli apparati istituzionali pubblici è da decenni in continua evoluzione. A fronte di gravi e frequenti casi di illecita captazione di finanziamenti pubblici, la normativa penale classica è apparsa al legislatore insufficiente a ricomprendere le nuove fattispecie concrete che ledono interessi economico-patrimoniali pubblici particolarmente rilevanti, compresi quelli dell’Unione Europea.
Accanto alle classiche figure di cui all’art. 640 c.p. e, con specifico riferimento all’INPS, all’art. 2 c.1bis D.L. n. 463/1983, conv. in legge 638/1983 (appropriazione indebita di ritenute previdenziali), sono state progressivamente introdotte nuove figure di reato per ampliare la tutela penalistica: dai reati di “Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” e “frode informatica” (articoli 640bis, 640ter), alla “dichiarazione fiscale fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (artt. 2 e 8 D.lgs. n. 74/2000); dalle indebite percezioni di finanziamenti ed erogazioni pubbliche (316ter c.p. e art. 2 legge n. 898/1986, modificato dalle leggi n. 142/1992 e 300/2000), alle indebite compensazioni tramite modello F24 (art.10quater D.lgs. n. 74/2000, modificato dall’art. 9 D.lgs. n.158/2015) e, infine, anche all’indebita percezione del reddito di cittadinanza (art.7 cc.1 e 2 D.L. n. 4/2019, conv. in legge n. 26/2019).
Di seguito si cercherà di dare un quadro sintetico delle fattispecie che interessano in modo particolare l’Istituto previdenziale, che risulta molto esposto a condotte illecite a causa del suo doppio ruolo di ente che deve assicurare la raccolta e l’accertamento dei contributi e, nello stesso tempo, erogare prestazioni previdenziali e assistenziali sempre più numerose. Le truffe ai danni dell’INPS rappresentano un fenomeno grave e diffuso e in esse risultano coinvolti vari soggetti (organizzazioni criminali, imprenditori, dipendenti pubblici, intermediari professionali e Patronati, falsi lavoratori ecc.), con indagini che possono coinvolgere anche decine o centinaia di persone e riguardano spesso anche altri gravi reati, tra cui l’associazione a delinquere, i reati di falso, la frode fiscale. Per ciascun reato esaminato, si cercherà di mettere in evidenza le casistiche emerse oggetto della giurisprudenza.
2. Art. 640 c.p. (“Truffa”)
Il reato di truffa è il tipico delitto che si realizza attraverso una cooperazione “indotta” della vittima. La condotta consiste in una aggressione al patrimonio altrui realizzata attraverso l’inganno che induce la vittima a concorrere alla produzione dell’evento dannoso, in ragione dell’errore derivante dall’azione perpetrata dal reo. Tra le circostanze aggravanti dell’art. 640 vi è quella del “fatto commesso ai danni dello Stato o di altro ente pubblico”, laddove per ente pubblico si intende, ad esempio, l’Inps. Ricorre questo reato aggravato ai sensi del comma 2 n. 1 contro l’Inps nel caso in cui un dipendente svolga attività lavorativa diversa pur avendo presentato un certificato di malattia al proprio datore di lavoro (Cassazione n. 47286/2018) oppure laddove utilizzi i permessi per assistere un familiare gravemente invalido (ex art. 33 legge 104/1992) e, invece di svolgere l’attività di cura in favore del congiunto, va in vacanza con la famiglia. Infatti, chi usufruisce dei permessi retribuiti di cui sopra (sempre a carico dell’Inps), “pur non essendo obbligato a prestare assistenza alla persona handicappata nelle ore in cui avrebbe dovuto svolgere attività lavorativa, non può, tuttavia, utilizzare quei giorni come se fossero giorni feriali senza prestare alcuna assistenza alla persona handicappata. Di conseguenza, risponde del delitto di truffa il lavoratore che, avendo chiesto ed ottenuto di poter usufruire dei giorni di permesso retribuiti, li utilizzi per recarsi all’estero in viaggio di piacere” (Cassazione n. 54712/2016).
La Cassazione, con sentenza n. 15955/2012, ha ricondotto a questo reato contro l’Inps anche la condotta dell’imprenditore che fruisce illegittimamente degli sgravi contributivi per le assunzioni agevolate (nel caso specifico, di lavoratori in mobilità), attestando falsamente la non ricorrenza di condizioni ostative come gli “assetti proprietari sostanzialmente coincidenti” fra la società che prima licenzia i lavoratori e l’altra che poi li riassume. Al riguardo, l’art. 3 c.6 lett. d) legge n. 448/1998, secondo un principio generale in tema di sgravi contributivi – comune all’art.8 c.4bis legge n. 223/1991 e poi all’art. 2 c.10bis legge n. 92/2012 ed all’art. 31 lett. d) D.lgs. n.150/2015 – prevede che l’incremento della base occupazionale venga considerato al netto delle diminuzioni occupazionali in società facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto; rientrano in tale fattispecie anche tutte le situazioni in cui consti la presenza di un comune nucleo proprietario, in grado di ideare e attuare operazioni coordinate di assunzione e licenziamento del medesimo personale (Cassazione civile n. 9662/2019).
Più di recente, la Cassazione, con la sentenza n. 9750/2020, ha ricondotto a tale fattispecie aggravata la seguente fattispecie. Posto che per lavoratore distaccato si intende, ai sensi dell’art. 2 D.lgs. n. 136/2016 “il lavoratore abitualmente occupato in un altro Stato membro che, per un periodo limitato, predeterminato o predeterminabile con riferimento ad un evento futuro e certo, svolge il proprio lavoro in Italia e che gli accertamenti investigativi hanno fatto emergere che invece la costituzione di una realtà imprenditoriale in Bulgaria era fittizia, erano INPS e INAIL i soggetti legittimati ad ottenere crediti previdenziali ed assistenziali, per cui tali soggetti hanno subito un danno patrimoniale con corrispondente profitto per gli indagati; risultano pertanto presenti tutti gli indizi per ritenere con- figurato il reato di truffa, non essendo contestata la realizzazione di comportamenti fraudolenti (la fittizia interposi- zione transnazionale). La finalità della fittizia interposizione transnazionale è proprio quella di procurarsi un ingiusto profitto (con corrispondente danno per gli enti previdenziali) consistente nel risparmio contributivo…”.
Infine, la Cassazione, con sentenza n. 29709/2017, si è espressa in un caso di presentazione ad una pubblica amministrazione di un falso Documento unico di Regolarità Contributiva (DURC) per accedere ad una gara d’appalto ed ottenere i conseguenti pagamenti derivanti dall’esecuzione delle attività. Secondo questa pronuncia, ricorrono i reati di cui agli articoli 477 e 482 c.p. (falsità materiale del privato in certificazioni amministrative) e di cui all’art. 640 c.2 n. 1, da una parte, per la natura giuridica del DURC che ha valore di attestazione della regolarità di un’impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali dovuti agli enti di riferimento e, dall’altra, realizzandosi la truffa per il solo fatto che si sia addivenuti alla stipulazione del contratto che, senza gli artifizi e raggiri posti in essere dall’agente, non sarebbe stato stipulato.
3. Art. 640bis (“Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche”)
Con la legge n. 55/1990, è stato introdotto l’art. 640bis c.p., secondo cui, “se il fatto di cui all’art. 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di enti pubblici o dalla Comu- nità Europea, la pena è della reclusione da 2 a 7 anni e si procede d’ufficio”. Di seguito si elencano alcune ipotesi di “false invalidità civile” tese ad ottenere le specifiche prestazioni erogate dall’Inps e riconducibili al delitto in esame:
• simulazione di uno stato di cecità al fine di ottenere le relative prestazioni assistenziali (Cassazione nn. 23185/2019 e 49402/2012), anche in caso in cui siano mancati successivi controlli da parte dell’Inps;
• utilizzo o presentazione di dichiarazioni false o attestanti cose non vere o omissione di informazioni dovute se hanno natura fraudolenta, come nel caso di formazione di un verbale della commissione medica falso attestante un’inesistente situazione di invalidità per ottenere la pensione (Cassazione n. 10766/2015);
• produzione di un documento contraffatto, apparentemente rilasciato da una struttura pubblica, attestante la necessità di assistenza continua, al fine di ottenere la pensione di invalidità civile da parte dell’INPS (truffa più falsità in certificazioni) (Tribunale Napoli, n. 3376/2014).
La sentenza della Cassazione n. 40260/2017 fa parte di altro filone: il figlio, cointestatario del conto corrente presso cui viene accreditata la pensione, che, non solo ha omesso di informare l’ente previdenziale del decesso del congiunto pensionato (si è trattato di un caso in cui non ha funzionato il meccanismo di comunicazione tra Anagrafe dei Comuni e Inps), ma ha anche attestato falsamente l’esistenza in vita del genitore, in tal modo inducendo in errore l’Inps e concretizzando l’elemento caratterizzante della truffa aggravata. Sempre in questo contesto si segnalano casi di “separazioni consensuali fittizie” – con rinuncia al diritto agli alimenti da parte di uno dei coniugi e successiva domanda di assegno sociale all’Inps – al solo fine di dichiarare all’ente previdenziale condizioni di reddito tali da far ottenere il beneficio assistenziale, che è una prestazione dovuta agli anziani residenti in Italia con redditi molto bassi e non spetta se il reddito complessivo familiare supera una certa soglia (attualmente circa 12 mila euro).
Altra frequente casistica riconducibile sempre al reato in esame è la creazione di aziende “fantasma” o la riattivazione di aziende cessate o sospese, sia nel settore agricolo – con terreni inconsistenti o falsi contratti di affitto – sia negli altri settori, le quali simulano contratti di lavoro con falsi dipendenti (a volte relativi anche a centinaia o migliaia di persone) e inviano le denunce contributive mensili – così alimentando i conti assicurativi individuali dei falsi dipendenti – nella maggior parte dei casi senza poi effettuare alcun pagamento della contribuzione dovuta; tutto ciò al fine di ottenere indennità di disoccupazione/Naspi, indennità di malattia e maternità, assegni al nucleo familiare. Le prestazioni finiscono in parte ai promotori e organizzatori della truffa, in parte ai finti dipendenti; altra conseguenza di tali illeciti è l’accredito della contribuzione figurativa ai fini pensionistici durante i periodi di percezione dell’indennità di disoccupazione/Naspi, con conseguenze pregiudizievoli per l’Inps anche rispetto agli eventuali trattamenti pensionistici.
Negli ultimi anni il contrasto da parte dell’Inps al fenomeno dei rapporti fittizi si è molto accentuato, sia con riferimento ai più frequenti accertamenti ispettivi in agricoltura e nel settore del “terziario/servizi” dove il fenomeno è radicato, sia grazie a procedure amministrative e di intelligence che hanno portato migliaia di aziende e soggetti ad essere inseriti in una “black list” e che inibiscono anche l’erogazione delle prestazioni. Solo per dare l’idea della rilevanza del tema, il Piano Performance 2020, pubblicato sul sito dell’ente, indica in 250 milioni di euro i risparmi derivanti dalle prestazioni non erogate a seguito dei controlli dell’Inps sui rapporti di lavoro fittizi.
Anche con riferimento alle domande di Cassa Integrazione per l’emergenza COVID 19, sono stati “intercettati” migliaia di casi di aziende che hanno fatto richiesta di iscrizione “retroattiva” all’Inps e comunicato assun- zioni “retrodatate” di parenti e altri congiunti al solo fine di poter accedere al nuovo trattamento di sostegno al reddito.
4. Art. 316ter c.p. (“Indebita percezione di eroga- zioni a danno dello Stato”)
Questo reato si distingue dalla truffa aggravata per i seguenti elementi:
• è un reato di pericolo e non di danno (Cassazione n. 35220/2013);
• non è richiesta la fraudolenza della condotta in quanto la presentazione delle dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere costituisce fatto strutturalmente diverso dagli artifici e raggiri previsti nei reati di truffa;
• non è presente l’induzione in errore (Cassazione n. 46064/2012);
• assorbe i reati di falso ideologico (art. 483 c.p.) e di uso di atto falso (art. 489 c.p.) (Cassazione Sez. Un. n. 16568/2007).
La fattispecie è, per molti versi, analoga a quella prevista dall’art. 2 legge n. 898/1986: si prevede la clausola di sussidiarietà; si punisce l’indebito conseguimento di fondi; si prevede la sola sanzione amministrativa nel caso di violazioni sottosoglia. Le modalità descritte dall’art. 316ter non sono di per sé idonee ad integrare l’artificio e/o il raggiro, dovendosi verificare caso per caso gli elementi ulteriori rispetto alla utilizzazione o presentazione di documenti falsi o alla mera reticenza, capaci di determinare l’induzione in errore del soggetto passivo (Ordinanza Corte Cost. n. 95/2004).
In particolare, se la condotta dell’agente si sia limitata alla presentazione o all’utilizzo di documenti falsi già “preconfezionati”, senza concorso nel falso, oppure ad una reticenza che, per le modalità, il contesto o altri elementi, non possa ritenersi idonea a determinare l’induzione altrui in errore, si applicherà l’art. 316ter c.p.; se, invece, la falsità è stata “confezionata” dallo stesso agente oppure la reticenza sia stata posta in essere con modalità o in un contesto o sia corredata da ulteriori elementi, tali da determinare l’inganno, si applicherà il più grave reato di cui all’art. 640bis. Le “erogazioni pubbliche” a cui si riferisce la norma possono consistere indifferentemente in denaro o esen- zione dal pagamento di una somma dovuta (ad esempio, a titolo di contributi previdenziali). Proprio a questa ultima ipotesi si riferisce una diffusa casistica ai danni dell’Inps, cioè la falsa attestazione nei flussi contributivi Uniemens (e prima nei modelli DM 10) del versamento di somme anticipate ai dipendenti da parte del datore di lavoro, a titolo di cassa integrazione, malattia, assegni al nucleo familiare, maternità, accantonamenti TFR. Il datore di datore, in questi casi, ottiene la riduzione dell’importo dei contributi dovuti attestando il pagamento di prestazioni sociali ai lavoratori che, invece, non è mai avvenuto (Cassazione nn. 51334/2016 e 28328/2020). Tale condotta integra il reato di cui all’art. 316ter – e non quello di cui all’art. 640bis – laddove sia riscontrata su base mensile il superamento della soglia di punibilità di 3.999,96 euro (Cassazione 7462/2020).
L’indirizzo giurisprudenziale citato si è consolidato a partire dalla sentenza della Cassazione n. 48663/2014, dopo che in passato si propendeva, in questi casi, per la configurabilità del reato di truffa (Cassazione n. 42937/2012) o di appropriazione indebita (Cassazione n. 18762/2013). Sempre a tale reato è ricondotta la casistica della omessa comunicazione all’INPS della morte di un pensionato da parte del figlio che continua a percepire la pensione (Cassazione n. 55525/2017), quella del percettore di Cassa integrazione che omette di comunicare un nuovo impiego e quella del titolare di assegni al nucleo familiare (ANF) che non comunica la variazione del nucleo a seguito di separazione/divorzio. Infatti, in caso di condotta semplicemente omissiva, ricorre l’art. 316ter se è violato un preesistente obbligo giuridico di informazione (in questi casi obbligo sussistente nei confronti dell’Inps).
A questo ultimo riguardo, una recentissima sentenza della VI sezione penale della Corte di Cassazione (ancora in fase di pubblicazione) ha affermato che non spetta al cointestatario del conto corrente – sul quale è accreditata la pensione del deceduto – comunicare il decesso all’Inps. In tal caso, la legge n. 289/2002 ha previsto l’obbligo per le anagrafi comunali di trasmettere on line all’Inps le comunicazioni di decesso e lo stesso obbligo è stato previsto a carico dei medici necroscopi dall’art. 1 legge n. 190/2014. Quindi, non sussistendo per il cointestatario un obbligo di comunicazione specifico all’Inps del decesso, secondo questo ultimo indirizzo della Suprema Corte, non sarebbe configurabile a suo carico il reato in questione laddove l’Inps continui a erogare il trattamento.
Con riferimento alla prestazione ANF, la Corte di Giustizia UE, con due sentenze del 25 novembre 2020, ha riconosciuto che uno Stato membro non può rifiutare o ridurre il beneficio di una prestazione di sicurezza sociale al soggiornante di lungo periodo o ai titolari di un permesso unico lavoro, per il motivo che i suoi familiari risiedono in un paese terzo, quando invece accorda tale beneficio ai propri cittadini indipendentemente dal luogo in cui i loro familiari risiedano. In passato, si sono verificati casi di stranieri lavoratori in Italia che avevano chiesto gli ANF per i figli all’estero, caso che poteva rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 316ter o dell’art. 640bis, a seconda della presenza o meno anche dell’induzione in errore.
Sempre con riferimento alla prestazione ANF, la circolare Inps n. 45/2019, indirettamente anche per limitare la loro indebita percezione, ha riformato le modalità di presentazione delle domande. In particolare, “a decorrere dal 1° aprile 2019 le domande finora presentate dal lavoratore al proprio datore di lavoro devono essere inoltra- te esclusivamente all’INPS in via telematica”. L’Inps individua gli importi teoricamente spettanti in riferimento alla tipologia del nucleo familiare e del reddito conseguito negli anni precedenti e li comunica al datore di lavoro che calcola l’importo effettivamente spettante. La somma corrisposta mensilmente non può eccedere quella mensile indicata dall’Istituto. Il datore di lavoro eroga gli importi per la prestazione familiare con la retribuzione mensile e provvede al relativo conguaglio con le denunce mensili. Qualora il lavoratore abbia richiesto assegni per il nucleo familiare arretrati (per un massimo di cinque anni) – altra ipotesi che si prestava a condotte fraudolente – il datore di lavoro può pagare al lavoratore e conguagliare attraverso il sistema Uniemens esclusivamente gli assegni relativi ai periodi di paga durante i quali il lavorato- re è stato alle sue dipendenze, mentre le residue prestazioni familiari devono essere liquidate dal precedente datore di lavoro.
Solo per dare un’idea del fenomeno, grazie alle nuove modalità sopra descritte del “processo ANF”, le minori uscite annuali indicate nel “Piano Inps 2020 della Vigilanza documentale” sono state stimate in circa 190 milioni di euro. Altra casistica riferita all’art. 316ter riguarda l’indebi-ta percezione dell’assegno sociale da parte di soggetto che si è trasferito all’estero e che ha omesso di comunicarlo all’Inps (Cassazione n. 47064/2017).
Nel caso vi fossero elementi aggiuntivi rispetto all’omissione di comunicazioni che concretizzino l’induzione in errore (ad es. rientro in Italia solo per acquisire la residenza e presentare la domanda, creazione di conti correnti cointestati con parenti in Italia ecc.) si configura il reato più grave di truffa.
5. Art. 2 c.1bis D.L. n. 463/1983, conv. in legge 638/1983, modificato dall’art. 3 c.6 D.lgs. n. 8/2016 (Appropriazione indebita delle ritenute previdenziali).
L’art. 3 c.6 D.lgs. n. 8/2016, in attuazione dell’art. 2 c.2 lett. c) della legge n. 67/2014, sostituisce il testo dell’art. 2 c.1bis D.L. n. 463/1983, conv. in legge n. 638/1983, con riferimento alla rilevanza sanzionatoria degli omessi versamenti dei contributi previdenziali, per la quota corrispondente alle ritenute operate nei riguardi dei lavoratori (contribuzione relativa alla quota a carico dei lavoratori).
L’illecito penale in questione riguarda, in pratica, la “appropriazione indebita” della quota di retribuzione per la quale il datore di lavoro funge da sostituto d’imposta, trattenendola ai lavoratori in busta paga per conto dell’INPS. L’attuale testo normativo opera un distinguo legato al valore dell’omissione compiuta dal datore di lavoro, confermando la sanzione penale della reclusione fino a 3 anni congiunta alla multa fino a euro 1.032 per i soli omessi versamenti di importo superiore a euro 10.000 annui. Se, invece, l’importo omesso rimane sotto la predetta soglia, al datore si applicherà la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. In ogni caso il datore di lavoro non è punibile con la sanzione penale per le omissioni più gravi e non è assoggettabile neppure alla sanzione amministrativa per quelle sotto-soglia se versa quanto dovuto entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’accertamento della violazione.
Secondo la circolare Inps n. 121/2016, ai fini della determinazione dell’importo di euro 10.000 annui, l’arco temporale da considerare per il controllo sul corretto adempimento degli obblighi contributivi è quello che intercorre tra il 1° gennaio ed il 31 dicembre di ciascun anno (anno civile). Tenuto conto delle singole scadenze legali degli adempimenti dovuti dai datori di lavoro, i versamenti che concorrono alla determinazione della soglia sono quelli relativi al mese di dicembre dell’anno precedente all’annualità considerata (da versare entro il 16 gennaio) fino a quelli relativi al mese di novembre dell’annualità considerata (da versare entro il 16 dicembre). La condotta è punibile soltanto a fronte di una effettiva corresponsione della retribuzione ai dipendenti (Cassazione S.U. n. 27641/2003, Cassazione n. 14839/2010; Cassazione n. 20845/2011).
Oltre che ai lavoratori dipendenti, l’attuale distinzione fra reato e illecito amministrativo riguarda anche i lavoratori agricoli e i collaboratori coordinati e continuativi, a seguito dell’art. 1 c.1172 legge n. 296/2006 e dell’art. 39 legge n. 183/2010. Secondo la Cassazione n. 36614/2019, per il mancato versamento dei contributi non rileva la crisi di liqui- dità in cui versa l’azienda dovendo il datore di lavoro, nel caso di pagamento degli stipendi, “ripartire le risorse esistenti in modo di adempiere al proprio obbligo contributivo”.
Con la sentenza n. 35819/2020 la Cassazione torna sulla questione confermando l’orientamento maggioritario che considera il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali una fattispecie a dolo generico, ravvisabile ogni qual volta l’imprenditore, “in presenza di una situazione di crisi economica, decida di dare pre- ferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti e di pretermettere il versamento delle ritenute all’erario”. L’impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità, diversamente da quanto affermato in significative pronunce della stessa Corte, non può fungere da scriminante dell’omissione del versamento delle ritenute previdenziali. Inidonea ad escludere la colpevolezza è anche la ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 2777 c.c. che attribuisce preferenza in termini temporali al pagamento delle retribuzioni su altri crediti anche erariali o contributivi. A tale riguardo, quest’ultima norma non può essere richiamata in contesti nei quali non opera il principio della par condicio creditorum.
Infine, con riferimento alla possibilità di applicare la clausola generale di non punibilità per “particolare tenuità del fatto” di cui al D.Lgs. n. 28/2015, la Cassazione n. 25537/2019, l’ha ritenuta applicabile “in presenza delle condizioni ivi previste a tutte le tipologie di reato, non essendo previste esclusioni specifiche, ed è certamente applicabile anche ai reati per i quali il legislatore ha previsto una soglia di punibilità” come nel caso di specie. Per valutare la particolare tenuità non è rilevante la pluralità delle mensilità interessate dal mancato versamento quanto “l’irrilevanza della contenuta entità del superamento della soglia” in relazione al periodo annuale.
6. Articolo 7 cc.1 e 2 legge 26/2019 (Indebita percezione del Reddito di cittadinanza)
Il reddito di cittadinanza (RdC) è una prestazione assistenziale che viene erogata dall’Inps a seguito della verifica amministrativa dei requisiti previsti dal legislatore. In particolare, ha come presupposti, oltre che la cittadinanza o la prolungata residenza per gli stranieri (10 anni), la condizione di povertà desumibile da specifici requisiti sia patrimoniali che reddituali (prendendo a riferimento un ISEE inferiore a 9.360 euro) e la disponibilità del beneficiario verso il lavoro (sottoscrizione con il centro per l’impiego di un patto per lavoro/ formazione/inclusione sociale); inoltre, dal calcolo dell’importo del beneficio sono esclusi i componenti del nucleo familiare condannati per reati gravi (ad es. per art. 416bis o per art. 640bis) o detenuti o colpiti da misure cautelari personali. Le fattispecie di reato in questione attengono alle condotte di falsità finalizzate ad ottenere il RdC in presenza di elementi ostativi o che ne ridurrebbero l’importo, con particolare riferimento al reddito/patrimonio del soggetto agente o altre condizioni ostative relative ai familiari (ad esempio, condanne penali o altre misure cautelari).
L’art. 7 c.1 punisce con la reclusione da 2 a 6 anni coloro che, per ottenere il RdC, forniscono o utilizzano dichiarazioni, documenti falsi, attestanti cose non vere oppure omettono informazioni rilevanti per l’ammissione al beneficio o la sua esclusione. Una norma, quindi, che ricomprende ogni tipo di falsità o omissione senza alcuna differenziazione in relazione al grado di offensività delle singole condotte. L’art. 7 c.2 punisce con la reclusione da 1 a 3 anni l’omessa comunicazione di variazioni reddituali o patrimoniali da parte del percettore del RdC. L’omissione riguarda la comunicazione all’Inps circa l’avvio di un rapporto di lavoro regolare o anche irregolare. A tale ultimo riguardo, non si può non sottolineare come sia quasi un’ipotesi di scuola quella del lavoratore che autodenuncia un rapporto in nero così da perdere (o ridurre in modo consistente) il suo RdC. Dall’altra parte, diventa reato la mancata comunicazione all’Inps di un rapporto di lavoro regolare, già oggetto quanto meno di comunicazione obbligatoria al Centro per l’impiego.
Le condotte previste dalle due fattispecie in parola appaiono sovrapponibili a quelle di cui all’art.316ter, salvo che i reati di cui all’art.7 si configurano indipendentemente dalla percezione effettiva del RdC e prevedono pene molto più elevate rispetto alle altre di indebita percezione di erogazioni pubbliche. I casi di cronaca che si sono registrati dal momento dell’avvio della nuova misura – certamente importantissima nella lotta contro la povertà e il disagio sociale – non depongono a favore dell’efficacia deterrente della previsione di pene così severe. La prima giurisprudenza in materia (Cassazione sentenza n. 5289 del 25 ottobre 2019), relativa al sequestro preventivo della card con cui si attiva il RdC, ha stabilito che lo stesso, “nel caso di false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, da parte del richiedente il reddito di cittadinanza, può essere disposto anche indipendentemente dall’accertamento dell’effettiva sussistenza delle condizioni per l’ammissione al beneficio”. Secondo questa sentenza, la punibilità del reato si spinge oltre il pericolo di un profitto ingiusto, facendo riferimento al “generale dovere di lealtà dei cittadini verso l’amministrazione”, che consentirebbe una costituzionalmente legittima anticipazione della tutela penale. A tale riguardo, secondo la sentenza in parola la disciplina in questione è correlata, “nel suo complesso, al gene- rale principio antielusivo che… s’incardina sulla capacità contributiva ai sensi dell’art. 53 Costituzione, la cui ratio risponde al più generale principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.; per cui, la punibilità del reato di condotta si rapporta, ben oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali rice- ve un beneficio economico. Tale essendo la ratio delle due fattispecie incriminatrici dell’art. 7 del D.L. n. 4 del 2019, deve ritenersi che le stesse trovino applicazione indipendentemente dall’accertamento dell’effettiva sussistenza delle condizioni per l’ammissione al beneficio e, in particolare, del superamento delle soglie di legge”.
Con altra sentenza n. 30302/2020, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso sempre contro il sequestro preventivo della card su cui viene erogato il RdC, sulla base del fatto che, essendo stata accertata la percezione del beneficio e la sua divisione con la convivente, non è stato comunicato dall’indagato all’Inps il venir meno della convivenza, violando così la normativa in questione.
7. Art. 10 quater c.2 D.lgs. n.74/2000 (Indebita compensazione)
Nello svolgimento delle azioni di contrasto al fenomeno delle compensazioni indebite è emersa una prassi elusiva con cui alcune aziende pagano la contribuzione INPS compensando crediti d’imposta di altri soggetti (accollo) oppure propri. L’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il debito oggetto di accollo non può essere estinto utilizzando in compensazione crediti vantati dall’accollante nei confronti dell’Erario, prevedendo espressamente che, in caso di compensazione, per il debitore originario, comunque tenuto all’adempimento ai sensi dell’art. 8 c.2 legge n. 212/2000, l’omesso pagamento comporterà comunque il recupero dell’imposta non versata e degli interessi, nonché l’applicazione delle sanzioni amministrative previste dalla normativa in vigore.
L’inesistenza dei crediti utilizzati in compensazione emerge dai controlli perché, ad esempio, riferiti ad imprese prive di posizione aperta presso l’INPS, prive di dichiarazioni fiscali negli anni in cui sarebbero maturati i crediti d’imposta oppure riferiti ad aziende cessate da tempo. L’attuale versione dell’articolo 10-quater è stato sottoposto a revisione con l’art. 9 D.Lgs. n. 158/2015 e sta- bilisce che: “1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro. 2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro”.
La revisione del 2015 ha introdotto due autonome fattispecie di reato. Infatti, per crediti non spettanti deve intendersi crediti comunque esistenti in capo al contribuente anche se non ancora disponibili, mentre per crediti inesistenti sono da intendersi quelli inventati. Le principali differenziazioni, previste dal legislatore, si sostanziano:
• per l’utilizzo di crediti non spettanti è prevista la reclusione da 6 mesi a due anni qualora venga superato il limite di 50.000,00 euro per periodo di imposta;
• per l’utilizzo di crediti inesistenti è prevista la reclusione da 18 mesi a 6 anni qualora venga superato il limite di 50.000,00 euro per periodo di imposta.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 44737/2019, ha evidenziato che la condotta del reato si caratterizza per il mancato versamento di somme dovute utilizzando in compensazione, ai sensi dell’art. 17 D.lgs. n. 241/1997, crediti non spettanti o inesistenti. La ratio della disposizione va ricercata nella necessità di punire tutti quei comportamenti che si concretizzano nell’omesso versamento del dovuto e nel conseguimento di un indebito risparmio di imposta/contribuzione mediante l’indebito ricorso al meccanismo della compensazione tributaria, ossia attraverso la materiale redazione di un documento ideologicamente falso (modello F24), idoneo a prospettare una compensazione che non avrebbe potuto avere luogo, o per la non spettanza o per l’inesistenza del credito.
L’orientamento prevalente della Cassazione, richiamandosi anche alla sentenza n. 35/2018 della Corte costituzionale, è di ritenere possibile la configurazione del reato, sia in caso di compensazione “verticale” riguardante crediti e debiti afferenti alla medesima imposta, sia in caso di compensazione “orizzontale” concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa come la contribuzione previdenziale dovuta ad INPS ed INAIL.
La norma in esame, in altri termini, si presta a reprimere l’omesso versamento di somme di denaro attinente a tutti i debiti, sia tributari, sia di altra natura, per il cui pagamento deve essere utilizzato il modello di versamento F24 (Cassazione n. 389/2021). L’aumento dei casi del genere nell’ultimo decennio – emersi anche grazie all’attività di accertamento e ispettiva dell’Inps e alla collaborazione con Agenzia delle Entrate – dimostra una capacità di diversificazione e di sofisticazione delle condotte illecite nei confronti di Amministrazioni come l’Inps che determina la continua ricerca di nuovi strumenti di controllo e repressione.
Grazie a questi illeciti le aziende ottengono la regolarità contributiva (DURC) per partecipare a gare d’appalto, ottenere pagamenti dalle PP.AA. o agevolazioni contributive a cui altrimenti non avrebbero diritto e ciò rende evidente come, attraverso questi meccanismi delittuosi, si ledono non solo gli interessi patrimoniali degli enti pubblici coinvolti (Fisco e Inps) ma anche la libera e corretta competizione tra imprese nel mercato.