Parti sociali e welfare state in Italia: appunti per una ricerca
1/2019 GENNAIO - APRILE
Cenni storici. Analogamente ad altre esperienze europee, seppure con un certo ritardo rispetto ai maggiori Paesi del continente dovuto all'avvio tardivo della industrializzazione e al conseguente ritardato sviluppo del movimento operaio, anche in Italia i sindacati hanno avuto un ruolo molto rilevante alle origini delle moderne forme di previdenza sociale. Si potrebbe dire che la previdenza sociale nasce, anche in Italia, come espressione di auto-organizzazione e auto-protezione mutualistica all'interno del nascente movimento operaio e dell’incipiente sindacalismo industriale (si pensi al ruolo in qualche modo fondativo della solidarietà operaia avuto in Italia dalle casse mutue e dalla cooperazione)1 . Peraltro, quando con la legge n. 80 del 1898 sugli infortuni sul lavoro venne istituita la prima assicurazione sociale obbligatoria, il legislatore italiano, pur ispirandosi in parte alle leggi tedesche degli anni Ottanta , non adottò il modello corporativo bismarckiano, ma preferì attribuire alla nuova Cassa una natura e un profilo spiccatamente pubblicistico. La legge del 1898 non attribuiva però alla Cassa nazionale per gli infortuni alcun monopolio legale, consentendo l’assolvimento dell’obbligo assicurativo anche presso compagnie assicuratrici private . Negli anni in cui si gettano le basi della moderna previdenza sociale in Italia, a cavallo tra Otto e Novecento, lo stesso intervento pubblico si mantiene, dunque, dentro i confini – ancora angusti – consentiti dalla predominante ideologia liberale (la prima forma di assicurazione pensionistica obbligatoria è del 1919). Così circoscritto, il ruolo dello Stato lascia inevitabilmente uno spazio molto significativo alla libertà della previdenza privato collettiva e il sindacato trova ampi spazi per rafforzare il proprio ruolo in ambiti non ancora attinti dall'intervento pubblico (come tipicamente avviene in materia di collocamento, in cui operano elettivamente le Camere del lavoro).
Questo quadro è destinato a mutare radicalmente con l’avvento del fascismo. Il regime fascista imprime sin dagli esordi (già con la legge n. 563 del 1926) una fortissima impronta pubblicistica a tutto il sistema dei rapporti collettivi di lavoro e, più tardi, all'organizzazione della previdenza e dell’assistenza sociale, concepite come elementi portanti della costruzione dello Stato totalitario, e per questo oggetto di rinnovato interventismo del legislatore e di un significativo potenziamento. Le riforme organiche degli anni Trenta completano un progetto di pubblicizzazione integrale del sistema previdenziale italiano, concepito come strumento di politica economico-sociale del regime fascista ed elemento centrale di acquisizione di consenso allo Stato totalitario. Il corporativismo fascista nega la libertà dei corpi intermedi assorbendoli dentro l’apparato pubblico in nome della solidarietà corporativa e del superamento del conflitto di classe. È soltanto con la liberazione e l’avvento della Repubblica democratica che il sindacato libero torna ad avere un ruolo – costituzionalmente garantito – di protagonista del sistema di protezione sociale, in quanto formazione sociale diretta alla promozione dei diritti fondamentali della persona quale forma libera e auto-organizzata di solidarietà collettiva dei lavoratori (artt. 2 e 3, comma 2, Cost.). È un protagonismo che la Costituzione riconosce al sindacato anzitutto nella sua veste tipica di attore negoziale (art. 39 Cost.), prevedendo espressamente il principio di libertà (anche collettiva) della previdenza e dell’assistenza (art. 38, comma 5, Cost.).
Sindacato e partecipazione di tipo istituzionale al sistema di sicurezza sociale. Se il ruolo predominante visualizzato dalla stessa Costituzione si gioca, come diremo meglio tra breve, sul terreno della contrattazione collettiva, non va peraltro trascurato un aspetto che ha caratterizzato la legislazione sociale italiana soprattutto negli anni Settanta del Novecento e almeno sino alle riforme attuate a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, ormai in una logica di retrenchment del welfare state italiano. Nel periodo di massima espansione dello Stato sociale italiano (tra gli anni Settanta ed Ottanta dello scorso secolo, per l’appunto), i sindacati – in particolare le confederazioni maggiormente rappresentative – si sono infatti visti riconoscere un importante ruolo di partecipazione organica di tipo istituzionale alla gestione della previdenza pubblica. Il legislatore italiano ha progressivamente aperto alla partecipazione del sindacato la gestione dei maggiori enti di previdenza pubblica del Paese, senza peraltro adottare un modello propriamente neo-corporativo analogo a quello di talune esperienze nordeuropee. Una tale forma di partecipazione istituzionale si iscrive piuttosto in una generale tendenza, caratterizzante quella fase storica, di cooptazione del sindacato nella gestione della pubblica amministrazione previdenziale, con il riconoscimento di un ruolo che potremmo definire in senso lato politico-amministrativo. Il ruolo in tal modo attribuito alle confederazioni maggiormente rappresentative si collocava in realtà all'interno di una dinamica più ampia, in atto in quegli anni nella società italiana, certamente caratterizzata da un movimento di allargamento degli spazi di democrazia partecipativa e dal protagonismo delle grandi organizzazioni di massa (partiti politici e sindacati).
Questo modello di partecipazione di tipo istituzionale è stato tuttavia largamente superato a partire dalle riforme avviate alla fine degli anni Ottanta. Ancorché ridimensionata, questa dimensione partecipativa, di tipo latamente politico-istituzionale, non è stata, tuttavia, completamente abbandonata. Nel sistema vigente è stata infatti mantenuta una significativa partecipazione di tipo istituzionale dei sindacati più rappresentativi attraverso i Consigli di indirizzo e vigilanza (CIV) dei maggiori enti pubblici di previdenza (INPS e INAIL)6 , i quali hanno la funzione di definire i programmi e individuare le linee di indirizzo di tali Istituti, determinandone gli obiettivi strategici pluriennali, la cui attuazione e gestione è, però, interamente e autonomamente affidata alla governance istituzionale e alla collegata tecno-struttura dell’ente. Si è voluto riproporre in tal modo, nell’ambito della organizzazione del sistema previdenziale, quella fondamentale distinzione tra indirizzo politico e gestione amministrativa che ha caratterizzato, più in generale, la riforma delle pubbliche amministrazioni in Italia a partire dall’inizio degli anni Novanta.
Le parti sociali come soggetti erogatori qualificati di servizi strumentali di welfare. Diverso da tale ruolo partecipativo, ma in certo qual modo collegato ad una funzione di tipo amministrativo nella gestione del sistema di welfare, è il ruolo che i sindacati sono autorizzati a svolgere per legge attraverso gli istituti di patronato. Previsti già in epoca liberale e organicamente riconosciuti per legge sin dal 1947, i patronati realizzano un modello di partecipazione del sindacato alla amministrazione del welfare pubblico tipico e peculiare dell’esperienza italiana. Riformati nel 2001 (con la legge n. 152), i patronati esercitano funzioni di assistenza e di tutela in favore dei lavoratori, dei pensionati e più in generale di tutti i cittadini che si rivolgano ad essi per accedere alle prestazioni dello Stato sociale italiano. I patronati, riconosciuti per legge come persone giuridiche di diritto privato con finalità di utilità sociale, costituiscono, al contempo, un’emanazione diretta delle organizzazioni sindacali e contribuiscono in misura non marginale – attraverso il finanziamento pubblico di cui godono – al complessivo fabbisogno finanziario dei sindacati dei quali sono espressione. I patronati svolgono un ruolo di essenziale importanza nel garantire l’accesso di cittadini e lavoratori alle prestazioni del sistema di sicurezza sociale e costituiscono in certo seno l’interfaccia istituzionale privilegiata degli enti pubblici di previdenza del Paese. Il sindacato – attraverso il patronato – opera dunque come erogatore qualificato di servizi strumentali all'accesso al welfare e all’esercizio dei diritti di cittadinanza sociale. Si tratta quindi di un ruolo di natura prevalentemente amministrativa e consulenziale che ha, tuttavia, evidenti implicazioni politiche, nella misura in cui attribuisce alle organizzazioni sindacali una importante funzione di filtro e di mediazione istituzionale tra la pubblica amministrazione previdenziale e cittadini e lavoratori. Il ruolo negoziale delle parti sociali nel welfare italiano.
Non c’è tuttavia alcun dubbio che il ruolo principale che le parti sociali giocano nel sistema italiano di welfare è quello che il sindacato svolge propriamente nella sua veste tipica di attore negoziale nel vasto e variegato universo che possiamo chiamare “previdenza sociale contrattuale”11. Con questa espressione – dal significato a-tecnico – si designa il complesso e articolato insieme di interventi e prestazioni di natura in senso lato previdenziale e assistenziale che hanno come fonte primaria od originaria la contrattazione collettiva e che costituiscono dunque espressione della autonomia collettiva costituzionalmente riconosciuta alle organizzazioni sindacali (art. 39 Cost., in collegamento con l’art 38, comma 5). Il connotato che distingue ed accomuna queste forme di tutela previdenziale o assistenziale – che possono avere oggetti e ambiti di incidenza molto diversi (e quindi regolamentazioni corrispondentemente differenziate, ad esempio dal punto di vista del trattamento fiscale) – è, pertanto, la fonte contrattuale collettiva e quindi un’origine negoziale nell’ambito del sistema di relazioni sindacali. Si tratta appunto di forme di welfare contrattuale – complementari, integrative, aggiuntive e talvolta sostitutive della protezione sociale assicurata dallo Stato – istituite dalla contrattazione collettiva (nazionale o decentrata) e da questa in parte regolate in un rapporto piuttosto complesso e articolato con la legge12 . I modi in cui queste forme di previdenza contrattuale interagiscono con il sistema pubblico di protezione sociale, e quindi con le fonti legali, sono peraltro significativamente diversi e danno luogo a forme molto differenziate di interrelazione tra legge e contratto collettivo. Senza poter qui svolgere un’analisi approfondita, che richiederebbe una complessa indagine, si può dire che nell’ambito della previdenza in senso lato contrattuale legge e contrattazione collettiva entrano tra di loro in una relazione in cui l’equilibro tra pubblico e privato – ovvero tra il ruolo eteronomo della legge e gli spazi lasciati alla libertà e all’autonomia collettiva – varia considerevolmente a seconda del settore di welfare considerato. Fornirò di seguito gli esempi a mio avviso più importanti di tale diversa interazione tra legge e contratto collettivo nella previdenza contrattuale.
Sinteticamente, si può anticipare che, nel caso della previdenza pensionistica complementare (l’espressione a tutt’oggi più importante della previdenza sociale contrattuale), il contratto collettivo, e in primo luogo la contrattazione collettiva nazionale di categoria, sono promossi dalla legge, che tuttavia stabilisce limiti significativi all’autonomia delle parti sociali in funzione del perseguimento di interessi pubblici, dettando una disciplina imperativa non derogabile neppure a favore dei lavoratori aderenti alle forme pensionistiche complementari. Nel caso dei fondi bilaterali di solidarietà – che operano nel vasto campo degli ammortizzatori sociali e della tutela contro la disoccupazione – il ruolo della legge è ancora più stringente, tanto da spingersi ad una vera e propria pubblicizzazione (con l’assorbimento organico nell'apparato previdenziale pubblico) di tali forme nate dall’autonomia collettiva. Ancora diverso è, infine, il caso del welfare aziendale, dove la legge gioca un ruolo eminentemente promozionale – grazie ai robusti incentivi di natura fiscale e contributiva –, lasciando alle parti sociali (stavolta soprattutto alla contrattazione collettiva di livello aziendale e decentrato) un’ampia libertà a tutela di interessi di tipo eminentemente privato-collettivo. Le diverse forme di interazione tra pubblico e privato, tra legge e contratto collettivo, cui danno vita le tre ipotesi di previdenza contrattuale considerate (le forme pensionistiche complementari, i fondi bilaterali di solidarietà ed il welfare aziendale) richiedono quindi un’analisi minimamente articolata . Parti sociali e previdenza pensionistica complementare. Organicamente regolata per legge solo nel 1993, la previdenza complementare rimane la principale espressione del welfare contrattuale in Italia.
Ancorché la riforma legislativa del 2005 visualizzi un sistema pluralistico di fonti, consentendo la costituzione di fondi pensione aperti alle imprese del settore bancario e assicurativo, la fonte istitutiva privilegiata resta il contratto collettivo. Il favore del legislatore nei confronti dei grandi fondi negoziali chiusi si traduce, anzi, in una indiretta ma sicura promozione della contrattazione collettiva nazionale di categoria, che infatti conserva in materia il ruolo di principale fonte istitutiva delle forme pensionistiche complementari. Il favor legislativo nei confronti della contrattazione collettiva – specie di categoria o settore – è ancora oggi rintracciabile in aspetti significativi della disciplina della previdenza complementare. Ad esempio, ancorché sia prevista in principio la libera portabilità, da parte del lavoratore, della posizione pensionistica complementare da un fondo pensione sindacale chiuso ad un fondo aperto, la destinazione dell’obbligazione contributiva futura del datore di lavoro alla forma pensionistica prescelta dal singolo è condizionata alla previsione del contratto collettivo, che potrebbe (secondo talune opinioni) anche limitarne l’esercizio.
Questo aspetto della disciplina della portabilità della posizione previdenziale individuale dimostra la persistenza di un favore del legislatore nei confronti dei fondi collettivi chiusi, istituiti dalle parti sociali, sul presupposto che soltanto un ampio bacino di aderenti, possibilmente esteso in modo unitario ad una intera categoria contrattuale, consenta quelle economie di scala, anche sul piano gestionale, che sono necessarie per un adeguato sviluppo finanziario della previdenza complementare. Sul piano gestionale la legge ha optato per il modello della gestione paritetica delle parti sociali (ovvero dei sindacati dei lavoratori e delle associazioni datoriali di categoria che hanno sottoscritto il contratto collettivo istitutivo della forma pensionistica), sia pure imponendo ai rappresentanti da queste designati rigorosi requisiti di professionalità e onorabilità. Va peraltro considerato che la legge impone – almeno di regola – una gestione professionale degli asset finanziari dei fondi pensione, che sono tenuti a sottoscrivere apposite convenzioni di gestione con intermediari finanziari accreditati. Sul piano gestionale, si può dunque affermare che il principio dell’autogoverno paritetico delle parti sociali è temperato, a tutela del risparmio previdenziale dei lavoratori aderenti, dalla previsione di una gestione professionale affidata ad operatori qualificati del mercato finanziario, in conformità alla stessa normativa europea.
La legge promuove dunque la contrattazione collettiva, specie di categoria, ma al contempo pone dei limiti all'autonomia collettiva della parti sociali a garanzia dell’interesse pubblico e in particolare dell’esigenza che la previdenza complementare, pur espressione della libertà contrattuale delle organizzazioni sindacali, sia finalizzata alla garanzia di adeguati livelli di copertura previdenziale unitamente alle gestioni pubbliche obbligatorie. I limiti più discussi, ma che la Corte costituzionale (ad esempio nella sentenza n. 393 del 2000) ha da tempo ritenuto conformi ai parametri costituzionali (artt. 38, 39 e 41 Cost.), riguardano proprio i rapporti tra i regimi pubblici obbligatori e le forme pensionistiche complementari. La legge stabilisce, infatti, tra gli altri limiti, la regola per cui le prestazioni dei fondi di previdenza complementare possono essere erogate ai lavoratori aderenti soltanto a condizione che questi abbiano maturato il diritto al trattamento pensionistico obbligatorio nel regime pubblico di base.
Questa regola (ed altre aventi un analogo scopo, come ad esempio in tema di rivalutazione delle prestazioni pensionistiche complementari) pongono uno stingente limite funzionale all'autonomia collettiva, poiché sono esplicitamente finalizzate a garantire che la previdenza complementare assicuri, unitamente alle prestazioni erogate dalle gestioni pubbliche obbligatorie, più adeguati livelli di copertura previdenziale in favore dei lavoratori. Per tale ragione in dottrina si è parlato di una tendenziale funzionalizzazione della previdenza complementare a scopi di natura pubblicistica, nella logica dell’art. 38, comma 2, Cost. 16 . Non va peraltro trascurato che, nel sistema italiano, l’adesione del singolo lavoratore ad una forma pensionistica complementare, anche a quella istituita dal contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro, rimane libera, nel senso che è rimessa ad una libera scelta individuale. Questo è un profilo molto problematico della disciplina in vigore, che sta comunque a dimostrare che la previdenza complementare, anche quella espressione della contrattazione collettiva, può essere finalizzata ad obiettivi di innalzamento della protezione sociale dei lavoratori solo alla condizione che questi decidano – liberamente – di aderirvi.
Parti sociali e fondi bilaterali di solidarietà. Il ruolo delle parti sociali nella istituzione e nella gestione dei fondi bilaterali di solidarietà è ancora diverso, giacché in tal caso il legislatore italiano ha decisamente optato per una più accentuata connotazione pubblicistica del sistema. La disciplina è particolarmente complessa e non è possibile in questa sede darne conto in modo appropriato. Ai limitati fini di questa analisi si può osservare che i fondi bilaterali costituiscono tutti – in origine – espressione forse tra le più autentiche e significative di dinamiche di tipo cooperativo del sistema di relazioni industriali italiano, storicamente caratterizzato dalla prevalenza di culture e approcci di tipo conflittuale.
I fondi bilaterali sono, infatti, in principio, organismi pariteticamente costituiti dalle parti sociali mediante contrattazione collettiva (nazionale o, in certi settori, territoriale) al fine di assicurare a lavoratori e imprese una serie di prestazioni di natura sociale in forma mutualistica. In particolare, l’istituzione dei fondi di solidarietà bilaterali è prevista e regolata per legge al fine di assicurare ai lavoratori una tutela in costanza di rapporto di lavoro nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria.
L’istituzione dei fondi è in principio libera, anche se di fatto resa obbligatoria dal legislatore (a partire dalla riforma attuata dalla legge n. 92 del 2012), attraverso la previsione di un fondo pubblico residuale per l’appunto obbligatorio per tutti i settori non coperti dalla tutela di legge in materia di integrazione salariale in relazione ai datori di lavoro che occupano mediamente più di cinque dipendenti 18 . Oltre alla finalità di assicurare ai lavoratori una tutela in costanza di rapporto di lavoro nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria, i fondi bilaterali di solidarietà possono avere le seguenti finalità: a) assicurare ai lavoratori prestazioni integrative, in termini di importi o durate, rispetto alle prestazioni previste dalla legge in caso di cessazione del rapporto di lavoro, ovvero prestazioni integrative, in termini di importo, rispetto a trattamenti di integrazione salariale previsti dalla normativa vigente; b) prevedere assegni straordinari per il sostegno al reddito, riconosciuti nel quadro dei processi di agevolazione all'esodo, a lavoratori che raggiungano i requisiti previsti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato nei successivi cinque anni (ma la legge ha, con varie misure, aumentato, in certi casi e a certe condizioni, tale periodo); c) contribuire al finanziamento di programmi formativi dell’Unione europea. Per tali ultime finalità, i fondi possono essere istituiti anche in relazione a settori e classi di ampiezza dei datori di lavoro già coperti dalla normativa in materia di integrazioni salariali.
A tal fine, le organizzazioni sindacali e imprenditoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale stipulano accordi e contratti collettivi, anche intersettoriali, aventi ad oggetto la costituzione dei fondi di solidarietà bilaterali. Una volta concretizzatasi l’iniziativa sindacale, la legge interviene però ad irreggimentare i fondi bilaterali di solidarietà in una logica che privilegia nettamente la dimensione pubblicistica. Se nella previdenza complementare l’equilibro tra pubblico e privato, tra legge e contrattazione collettiva, pende decisamente verso questo secondo polo, non così avviene, invece, per i fondi bilaterali di solidarietà, che una volta istituiti dalle parti sociali assumono una natura, e svolgono conseguentemente una funzione previdenziale, pubblica. Infatti, a seguito dell’accordo collettivo istitutivo, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, si provvede all'istituzione del fondo come gestione interna dell’INPS. Il fondo viene in tal modo pubblicizzato e il suo bilancio – ancorché sia di norma integralmente finanziato dalla contribuzione di imprese e lavoratori del settore – resta assorbito come posta del bilancio generale dell’INPS. In alternativa al modello pubblicistico ordinario, ma solo in riferimento ai settori dell’artigianato e della somministrazione di lavoro, la legge consente di mantenere i fondi bilaterali di solidarietà dentro un regime di tipo privatistico. Al di fuori di tali aree, tuttavia, la regola generale è ormai quella della riconduzione al sistema pubblico dell’INPS delle espressioni della bilateralità collettiva. Ciò ha evidenti implicazioni anzitutto sul piano gestionale.
Ed infatti, i comitati di gestione dei fondi bilaterali di solidarietà costituiti presso l’INPS sono a tutti gli effetti organi interni dell’ente pubblico di previdenza. I componenti di tali organi vengono pariteticamente designati dalle organizzazioni datoriali e dalle associazioni sindacali più rappresentative firmatarie dell’accordo collettivo, ma la loro nomina avviene con decreto del Ministero del lavoro, in quanto svolgono una funzione pubblica. Correlativamente, sono a tutti gli effetti di natura pubblica sia le prestazioni sociali erogate da tali fondi, sia la contribuzione obbligatoria che ne alimenta il finanziamento. Nel caso dei fondi bilaterali di solidarietà siamo dunque in presenza di un fenomeno molto originale di commistione – o di embricazione, come è stato detto – tra contratto collettivo, che conserva il ruolo di fonte istitutiva, e normativa di diritto pubblico (legge e decreti ministeriali, che svolgono un ruolo costitutivo e regolativo). Il sostegno del legislatore a quella forma di solidarietà mutualistica e di categoria, che si esprime elettivamente nei fondi bilaterali, si spinge dunque sino a giungere ad un vero e proprio assorbimento della gestione e delle stesse funzioni di protezione sociale di tali fondi all'interno del sistema della previdenza pubblica obbligatoria. Per certi versi siamo in presenza di un fenomeno speculare a quello che ha condotto, alla metà degli anni Novanta del Novecento, alla cosiddetta privatizzazione delle forme di previdenza dei liberi professionisti. In tal caso, infatti, la fonte di disciplina della funzione pubblica obbligatoria assolta dagli enti di previdenza privatizzati resta essenzialmente la legge (sia pure integrata dalle espressioni di autonomia normativa parzialmente riconosciuta alle casse categoriali).
La privatizzazione resta dunque confinata alla dimensione soggettiva – avendo le casse di previdenza dei liberi professionisti potuto assumere la forma della fondazione o della associazione di diritto privato –, mentre sul piano oggettivo siamo pur sempre di fronte alla gestione (sotto la vigilanza dello Stato) di assicurazioni sociali obbligatorie operanti nell’orbita dell’art. 38, comma 2, Cost. (ancorché sganciate, sul piano finanziario, dai meccanismi di solidarietà che connotano, in principio, le forme di previdenza di base) . Sindacato e welfare aziendale. Ancora diverso, come si accennava sopra, è il caso del cosiddetto welfare aziendale.
Con tale espressione si intende usualmente fare riferimento all’insieme delle iniziative di natura contrattuale o unilaterale da parte del datore di lavoro volte a incrementare il benessere del lavoratore e della sua famiglia attraverso una diversa ripartizione della retribuzione, che può consistere sia in benefit rimborsuali, sia nella fornitura diretta di servizi, o in un mix delle due soluzioni. Si tratta, come evidente, di una definizione molto ampia, idonea a ricomprendere, potenzialmente, un diversificato e articolato universo di servizi e prestazioni non monetarie, che vanno dall’assistenza sanitaria integrativa alla stessa previdenza complementare, al sostegno economico alle famiglie, all’istruzione e alla formazione. Una serie molto ampia di benefit, dunque, che per i lavoratori si traducono in un pacchetto di possibilità di accesso a servizi e a consumi utili ad affiancare la tradizionale retribuzione monetaria. La promozione del ruolo della contrattazione collettiva in tale area è frutto di una scelta piuttosto recente del legislatore italiano, che si è tradotta nella previsione di una serie molto corposa di vantaggi di natura fiscale a favore sia delle imprese che dei lavoratori. Ricerche empiriche recenti dimostrano che la contrattazione collettiva aziendale sta facendo largo uso delle opportunità offerte dalla legge e che è al livello decentrato di impresa che i piani di welfare aziendale stanno avendo – come prevedibile – lo sviluppo maggiore. Più di recente, tuttavia, forme di welfare aziendale sono state previste anche dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria (come nell'importante caso del settore metalmeccanico) e, in minor misura, da quella territoriale.
Il welfare aziendale solleva, come è intuibile, questioni delicate e si presta a valutazioni problematiche. Da un lato, esso costituisce certamente una nuova frontiera del welfare mix italiano, nel quale la contrattazione collettiva è chiamata giocare – grazie agli incentivi fiscali riconosciuti dalla legge – un importante ruolo di innovazione, con ricadute positive sul benessere dei lavoratori e la produttività delle imprese24 . Da un altro lato, tuttavia, esso rischia di aumentare le tante disuguaglianze che affliggono il sistema italiano (fra grandi imprese e piccoli datori di lavoro, tra territori ricchi e regioni economicamente depresse, ecc.), contraddicendo, a ben vedere, quella finalità di solidarietà sociale che deve viceversa sempre giustificare una normativa fiscale particolarmente vantaggiosa. Il rischio, in altre parole, è che, in virtù degli incentivi fiscali previsti dalla legge, il welfare aziendale realizzi forme di redistribuzione “alla rovescia”, a vantaggio dei segmenti forti del mercato del lavoro italiano, aumentando le disuguaglianze senza un’adeguata compensazione in termini di crescita del benessere generale. Osservazioni conclusive. L’osservazione critica appena svolta a proposito dell’ambiguo ruolo del welfare aziendale ci restituisce una immagine inevitabilmente complessa e articolata dello stesso ruolo che più in generale le organizzazioni sindacali svolgono – nelle diverse dimensioni sin qui analizzate – nel sistema di protezione sociale italiano, inteso in senso ampio. Nella letteratura comparata il sistema di relazioni industriali italiano si segnala per una complessiva tenuta – o per una fondamentale “resilienza”, come taluno ha detto – del ruolo svolto dal sindacato, in particolare come attore negoziale25 . Il tasso di copertura dei contratti collettivi nazionali di categoria è ancora elevato in Italia. Il contratto collettivo nazionale di lavoro resta, infatti, il baricentro del sistema italiano di relazioni sindacali. Nello stesso tempo, non si è verificata alcuna deriva verso un decentramento o una aziendalizzazione “spinta” della contrattazione collettiva26 : la quota di lavoratori coperti da un contratto collettivo aziendale non è in realtà cresciuta in questi anni in Italia e resta piuttosto bassa, principalmente a causa della struttura del sistema economico del Paese, costituita in larghissima parte da imprese piccole e medie. Questo non significa, come ovvio, che il sistema italiano di relazioni industriali non sia afflitto da gravi problemi, per alcuni versi analoghi a quelli propri anche di altri Paesi europei. La frammentazione del sistema contrattuale – con un numero abnorme di contratti collettivi nazionali di lavoro – è forse il più evidente di tali problemi 27 , e risente di una chiara crisi di rappresentatività delle grandi organizzazioni sindacali, sia dal lato dei lavoratori che da quello degli stessi datori di lavoro. La forte compressione salariale e l’aumento impressionante di lavoratori poveri ne sono il risultato più preoccupante. In questo quadro in chiaroscuro, il ruolo svolto dalle parti sociali all’interno del complessivo sistema di welfare del Paese resta un importante fattore propulsivo dello sviluppo della contrattazione collettiva, ai diversi livelli.
La previdenza sociale contrattuale è una realtà dinamica e articolata in Italia, che contribuisce certamente alla complessiva tenuta del sistema italiano di relazioni industriali come anche all’aumento qualitativo e quantitativo della complessiva offerta di protezione sociale dei lavoratori. Al contempo, la diffusione fortemente diseguale dell’accesso alle forme di previdenza contrattuale, latamente intese, con le persistenti discrepanze tra aree (o segmenti) forti e deboli del mercato del lavoro, segnala anche tutti i limiti di un sistema, quale è quello italiano, che non si radica storicamente su una forte base di protezioni sociali pubbliche di carattere universalistico